Monica Pezzella

Monica Pezzella
     

 
    Leonardo G. Luccone     IL FIGLIO DELLE SORELLE

Leonardo G. Luccone

IL FIGLIO DELLE SORELLE

Il tempo, il dubbio di non esserci, la paura di non sapersi dire

di Monica Pezzella

Non credo vi sia, nella storia della letteratura e tenendo conto delle proporzioni, un romanzo in cui ricorre così tante volte la parola “papà”. Eppure dire che “Il figlio delle sorelle” di Leonardo G. Luccone (Ponte alle Grazie 2022) parla di paternità, famiglia e ansie sociali è ingiustamente riduttivo, facilmente facile. Chi sia il padre e chi il figlio menzionato nel titolo, qui, non va detto. Chi siano le sorelle, anche questo, come tutto ciò che è parte della trama, va lasciato al lettore.    

Se per descrivere un romanzo, dunque, si deve proprio tirare in ballo “il tema” di quest’ultimo, io direi che qui il tema è il tempo. “…questo tempo intermittente incollato dalle parole e dal Moscow Mule”. L’inafferrabilità del tempo, anzi. La pretesa, spacciata in partenza, di incamerarlo; contornarlo e controllarlo; recuperarlo e prevederlo; definirlo. “Definirlo”, ecco. In ogni accezione del termine. Tornano allora proprio loro, a battersi con il tempo (non contro; e forse sarebbe più corretto dire: a confrontarsi con il tempo): le parole. Sono loro quella pretesa già spacciata in partenza, il solo tramite che ha l’uomo, il tentativo, l’àncora, la possibilità di mettere ordine nel caos; speranza e, perciò, condanna.

E allora, se un “tema” dev’esserci per forza, ne “Il figlio delle sorelle” io direi che il tema è questo confronto tra il tempo-oltreumano e le parole-troppo-umane.

Confronto? Paradossalmente, adesso che è entrato in scena l’uomo, non vi è più alcun confronto: adesso, tutta ingabbiata nella mente dell’uomo, sobbollente in un cervello, vi è una mostruosa, vana guerra.

È pazzo, il presunto protagonista di questa storia? È pazzo, quest’uomo che sente “le voci” e che, nell’assecondare il desidero di maternità della compagna (nell’abbandonarsi, nel “tirare avanti […] peggio di due dipendenti svogliati”), nel prendere in considerazione le alternative da lei contemplate (e attuate?) per raggiungere il chimerico obiettivo (biologico? sociale?), nel non saper restare sotto la lama di ghigliottina che pende sulla testa (tempo biologico, tempo sociale, tempo perso, rovinato, macerato, tempo da assicurarsi, tempi imposti)… è pazzo quest’uomo che nel tentativo di definirsi, rannicchiato nella sua testa e nella stanza chiusa delle parole, comincia a dubitare di esistere?

Certo che è pazzo.

“Ninna nanna, ninna oh (Anafranil) questo bimbo a chi lo do (Anafranil) se lo do al lupo bianco me lo tiene tanto tanto (Carbolithium) ninna nanna, nanna fate, il mio bimbo addormentate (Anafranil, Anafranil, Anafranil).”

Certo che è pazzo. Così sinceramente, normalmente pazzo – un pazzo così nudo, esposto, espresso, detto – che chi legge le sue parole, nel ritrovarsi in un’umanità tanto vera, è subito tentato di ricorrere a una famosa citazione e riconoscere che, vedete?, quel famoso autore aveva ragione: Siamo tutti uguali, ma alcuni sono più uguali di altri.

Mi sa di no, invece. Siamo davvero davvero davvero tutti uguali, ma alcuni non lo sanno; forse perché non se lo sono mai detti.