PARTITURED.P.V.

Preoccupazioni

PARTITURED.P.V.
Preoccupazioni

Lasciar perdere tutto, rimanere a letto, chiudere gli occhi. Sarebbe perfetto potersene stare sdraiati e aspettare che le cose si sistemino da sole, e invece mi alzo alle sette e quaranta, che mi sembra un orario decente, da persone normali, e impiego un po' di tempo prima che gli occhi si sgonfino e possa vedere nitidamente; controllo il cellulare e mi faccio il caffè. Vado in bagno, mi siedo sul cesso, penso alla giornata che mi aspetta e ho un leggero conato di vomito. Controllo il cellulare. Esco dal bagno e mi vesto, jeans e maglietta, prendo lo zaino, chiudo il gas; arrivo alla porta di casa, la apro, torno indietro, controllo la manopola per vedere se ho chiuso il gas. Ore otto e dieci scendo le scale, apro il portone, ma a metà strada inizio a chiedermi se ho chiuso il gas: mi dico di sì, che non ha senso preoccuparsi. Continuo a camminare ma un brivido mi irrigidisce, la testa scatta da una parte e stringo i pugni per resistere: niente da fare, devo tornare indietro per controllare se ho chiuso il gas - ho chiuso il gas, ma questa volta faccio una foto al rubinetto, girato in orizzontale, per dimostrare al me stesso futuro, al me stesso che si nutre dei miei rimorsi e che già mi sta maledicendo, che non c'è niente di cui preoccuparsi.

Ore otto e trenta arrivo in ufficio, timbro il cartellino, ancora non c'è nessuno. Mi siedo alla scrivania e prendo coscienza del fatto che sono dentro la gabbia, la mia gabbia larga otto ore lunga cinque giorni; la mia gabbia di pareti a schermi liquidi di computer e telefono, il mio sguardo che rimbalza senza soluzione di continuità da uno all'altro.

Ore dodici e venticinque vorrei dare fuoco a tutto, evitare di uccidere qualcuno, ma bruciare tutto quanto, ridurre questo grosso edificio in cenere, vederne la carcassa annerita sfaldarsi al vento come il cadavere decomposto di un gigante mostruoso. Mi lavo le mani con l'amuchina. Vado in bagno e mi lavo le mani con acqua e sapone. Torno alla scrivania, mi lavo le mani con l'amuchina, di nuovo.

Faccio pausa pranzo con della frutta perché in casa non avevo niente; ieri sono andato al supermercato ma sono rimasto immobile dieci minuti di fronte a ogni reparto: troppi colori sgargianti, troppe marche, troppe proprietà benefiche, troppe fregature, troppi prodotti numero uno scelti dai consumatori; e poi avevo paura di non aver chiuso bene il lucchetto della bicicletta e non volevo che me la rubassero, così me ne sono uscito e non ho preso niente.

Il pomeriggio passa come tutti i pomeriggi: lento come una di quelle tapparelle motorizzate che si vedono nei motel dei film americani; piano piano scende il sole e posso sentire le ore sgocciolare via fisicamente: il plof ovattato delle quindici, quello giallo delle sedici, quello squillante delle diciassette. Mi trascino verso casa, stanco di non aver fatto niente. Prendo un caffè e vado in bagno. Controllo il cellulare. Chiamo a casa, mia madre è preoccupata per mia sorella, che è molto preoccupata per l'università, che ha paura di non finire in tempo; chiedo a mia mamma in tempo per chi, lei mi dice in tempo, che significa per chi. Io penso che il tempo mi sembra sempre distante, un tempo di altri, ma non lo dico, andiamo avanti, e lei mi dice che è preoccupata anche per mio padre, che è preoccupato di non riuscire ad andare in pensione, o che non vuole andare in pensione, non ho capito bene, perché vorrebbe continuare ad aiutare mio fratello, che è preoccupato di non riuscire a pagare il mutuo. Per il resto come va, chiedo. Tutto bene, dice lei. Riattacco, controllo il telefono, stendo i panni e cerco di stare attento con lo stendino, il padrone di casa tiene molto al suo pavimento in linoleum, ha paura che possa graffiarlo. Usa poca acqua per lavare, mi raccomando, sennò si imbarca, mi dice. Alle diciotto e trenta vorrei allenarmi, fare una corsetta, invece mi butto sul divano. Controllo il cellulare. Faccio un rapido conteggio dei giorni della settimana, realizzo che non sono mai andato a correre, che mi sono sempre addormentato: mi sento in colpa, metto le scarpe da ginnastica.

Corricchio in questo paesone assurdo tra le strade sconnesse; non riesco a distinguere le case in costruzione dalle macerie delle vecchie abitazioni. Gli indiani tornano dai campi con la testa cotta e la schiena spezzata in due, gli italiani tornano dalle fabbriche sbiaditi, i neri tornano dai macelli dopo aver sgozzato una media di quaranta vacche all'ora. Torno a casa e ho fatto sette km a una media di cinque minuti al chilometro e mi sento soddisfatto, solo che una volta arrivato mi ricordo di non avere acqua perché al supermercato non sono riuscito a decidermi; scendo giù e vado dal pakistano in piazza, chiedo una cassa d'acqua, lui è strabico e in ciabatte, circondato da mosche; dentro l'alimentari la luce al neon lampeggia, l'aria calda viene smossa da un ventilatore, qualche zanzara frigge nel suo sole; lui mi dice che l'acqua viene tre euro e mentre mi porge il resto mi avverte che al supermercato costa meno: dubito lo faccia perché è interessato alle mie finanze personali.

Torno a casa, mi faccio la doccia con uno shampoo particolare, attento alla cute delicata: ho paura di perdere i capelli, di vedere le ciocche tra le dita e di ritrovarmi allo specchio troppo cambiato. Non avrei niente da dire se fossi pelato da sempre, ma odio le cose nette, gli eventi che squarciano il tempo, le bandierine del prima e dopo, del ti ricordi quando. Esco dalla doccia, controllo il cellulare.

Alle ventuno mi preparo un po' di pasta al pomodoro e nient'altro, non ho voglia di pulire la cucina.

Alle ventuno e trenta cerco un film da vedere: in televisione non c'è niente, su Netflix ci sono troppi film da idioti, su Prime Video troppi film da americani, su Mubi troppi film da studentesse del DAMS di Bologna. A Bologna ci sono stato con Gaggioli: era piccola, piuttosto sporca, profumava di nostalgia: siamo scappati. Alla fine decido di non guardare niente, controllo il cellulare.

La città è immersa in una notte blu scura, sembra un relitto affondato negli abissi. Dalle finestre entra un tanfo di bestiame e scarichi; sono sicuro che sia quasi solido, sento che già mi stringe la gola, ho paura che possa svolazzare intorno alle mie caviglie, afferrarle e trascinarmi fuori, in uno spazio siderale che non conosco.

Vado a spegnere il gas, mi stendo a letto. Controllo il cellulare. Mi sveglio dopo qualche minuto di sonno, o almeno credo di aver dormito, perché devo pisciare. Sto per rimettermi a letto ma non ricordo se ho chiuso il gas. Vado a vedere, poi torno a letto.

Per tranquillizzarmi mi dico che la mia vita è la vita di tutti, niente di speciale. Sono le due di notte; controllo il cellulare.