Cronaca di una domenica

Cronaca di una domenica

Sono seduta a terra, la schiena contro un muretto di sassi arroventato. Me ne sto così, con in grembo la testa di un uomo agonizzante, che respira a fatica, non so ancora per quanto. La testa si muove appena, il corpo no. È sporco di feci, urine e vomito, l’ordine è partito dal cervello, ma era un cortocircuito, forse un ictus.

Le mosche sono arrivate per il loro banchetto, non posso cacciarle, devo tenergli la testa sollevata, potrebbe morire soffocato dal suo vomito, è un manichino col collo spezzato. 38 °C, l’estate più calda del secolo più caldo, su una strada sterrata. Lo stomaco si contrae, sto per vomitare, salgono spasmi violenti, ritmici: il caffellatte del mattino e mezzo litro di acido spalmato sulle rose, sulle rose del mio bellissimo vestito. A malapena sono riuscita a evitare la sua testa, lui non può muoversi, o forse non vuole. Due lucertole, una scivola sulle mie spalle, con un movimento brusco tento di allontanarla, sangue freddo il loro, sangue freddo il mio: non provo niente.

7 luglio – L’uomo è Roberto, un tempo il mio compagno di vita, adesso niente. Ma sono un medico, resto, se lascio la testa lui muore..

Ore 12.00 – Dovevamo vederci per il pranzo, volevi parlarmi.

“È una cosa importante.”

“Di che si tratta?”

“Poi ti spiego.”

Invece non lo saprò mai, stai morendo, provi ad aprire gli occhi, la luce è accecante, non ci sono lacrime a proteggere le tue pupille grigie, grigio acciaio, opache, blindate, e del resto io lacrime non te ne ho mai viste, neanche quando è morta tua madre, non ne avevi la necessità. Non c’è più acqua nel tuo corpo, la pelle è carta ingiallita, il sangue pulsa fiacco nella giugulare, lo sento sotto i polpastrelli, sei l’agonia di un insetto contro un vetro. Vorresti dire qualcosa, ma le labbra sembrano rami secchi, intrecciati nella piega sprezzante di sempre: “Jo, la mia Jo, non lasciarmi...”

Lo dici prima di ripiombare nel tuo inferno di sete e paura. Penso che è un pezzo ormai che ho smesso di essere la tua Jo, è solo che hai una paura fottuta, che sei pieno di merda e che, se ti lascio la testa, il collo ti si spezza del tutto. Lo sai che stai morendo? Che cos’è, che cos’è che dovevi dirmi di talmente importante da tenermi inchiodata qui con la speranza di riuscire a dirlo prima di crepare, in quest’inferno di sole, polvere, sudore, cicale impazzite. Stavolta non ce la faccio a salvarti la vita e sto qua coperta di sudore, una bambola di pezza col suo manichino, però adesso ti lascio, sarò pure un medico, ma tu stai morendo e io voglio vivere.

Finalmente, una macchina viene verso di noi. Ma non rallenta, prosegue, non ci ha nemmeno visti, com’è possibile? Scopro che è possibile, invece: aria condizionata, musica a tutto volume, sono come fortezze viaggianti, vagoni senza locomotiva, dirette verso il nulla, perché non c’è nulla dopo le nostre case, presto dovrà tornare indietro e s’accorgerà forse, mi dico, ecco guarda sta tornando. Prosegue, non ci ha visto neanche ora: com’è che siamo diventati invisibili? E quando?

E intanto non ce la faccio ad andarmene e la tua testa pesa, grava sul mio ventre scavato e rovente, una maternità di morte, una deposizione, e la tua testa, la tua bellissima testa piena di Nasdaq e Down Jones, e titoli a decidere del tuo umore, grafici a intossicarci la vita e il turismo delle tue piazze finanziarie nelle quali mi annoiavo a morte. Non ti sei mai accorto che ero altrove?

Rumore di imposte che si aprono: la sagoma di un uomo riempie il vano di una finestra, una sagoma enorme, rigonfia, una pesante catena dorata che fa il periplo di un collo taurino e che il sole fa brillare. Sta parlando al telefono, ad altissima voce, si prende tutto lo spazio sonoro, ride sguaiatamente e qua si muore in silenzio, zitti, come capita agli invisibili. Però da quella posizione dovrebbe vederci, potrebbe, almeno io lo vedo:“Ehi, mi senti?”

Qualcuno si tuffa in una piscina, non riesco a gridare, ché il cancro ci ha provato anche con me e mi ha fottuto almeno due ottave, qui si muore a pochi metri da tutto e da niente, accanto a te che non vuoi morire da solo, e io respiro polvere mentre continui a muovere inutilmente le labbra, e non dirai niente, niente che io possa ricordare, le tue parole chiuse in cassaforte per non farmele trovare, e il sole picchia così forte, presto saremo due corpi all’obitorio stesi l’uno accanto all’altro, invisibili l’uno all’altro, come ai bei tempi. Quando è stata l’ultima volta che ci siamo guardati? E voglio andarmene ma, se mi alzo, muori e qualche volta l’ho pure desiderato, ma adesso non ce la faccio a lasciarti, arriva qualcuno fischiettando, un fischio stupido in crescendo, lo conosco è Peppino, lo scemo del paese, ecco penso, un altro invisibile, e in quanto invisibile ci vede, fra invisibili è normale, smette di fischiare e chiede: “sta morto?” No, idiota, che non è morto, che ci starei a fare a terra con un morto in braccio? “Chiama un’ambulanza, piuttosto” e, invece, mi guarda stupito, non si muove, non sa come si fa, agitato va al cancello poco distante e comincia a urlare, arriva qualcuno, è il rinoceronte apparso alla finestra. Che cazzo, vai a vedere che abbiamo smesso di essere invisibili proprio adesso che sto per morire, che sto per morire per insolazione.

Ore 14.00 – Finalmente la sirena dell’ambulanza. Non ci vuoi salire, non smetti di essere stronzo neanche in punto di morte.

“Signora, lo mettiamo in un sacco”, mi dicono, e tirano fuori un sacco nero della spazzatura, ah, ecco una fine degna per un campione della finanza! “No decido io, non ti mando via chiuso in un sacco”, piuttosto chiedo acqua, molta acqua, forbici, sapone, un lenzuolo, ti lamenti, non ti ho avvertito, il getto d’acqua è violento, ti taglio calzoni e camicia, ora sei nudo, quanto tempo è che non ti vedevo nudo? Quando abbiamo smesso? Dio come sei invecchiato, ancora acqua e acqua ancora sul tuo corpo di uomo steso su una strada sterrata, una pozzanghera marrone che si allarga sotto, stai tremando, mi lasci fare senza reagire, ti avvolgo in un telo, il tuo sudario, a chiudere quindici anni della mia vita.

Arriva la barella, apri gli occhi, cerchi la mia mano: “Non lasciarmi Jo”, hai paura come tutte le altre volte, nell’aria l’odore del bagnoschiuma che impasta la polvere, la benzina della mia macchina e poi tutto il resto, nella tua mano stretta a pugno trovo un ramo di lauro, deve essere stata la tua ultima presa.

Qui al pronto soccorso vogliono sapere, dico che non so che dell’attimo in cui ti ho trovato, e in fondo è così. Sorridi: “Mamma, che ci fai qua?”

Sei allucinato, per chi mi hai preso, sono sporca, sudata, non sono io, è la quarta volta che ti salvo la vita figlio di puttana. Aspetto fuori, “Mamma non andartene!”

Nella sala la solita gente da pronto soccorso, uguale in tutti i pronto soccorso del mondo, nessuno è a posto, tutti sorpresi mentre stavano facendo qualche altra cosa. Io pure, stavo andando a pranzo con il mio bellissimo vestito Max Mara nuovo di zecca che adesso devo buttare, non foss’altro per non ricordare. Cerco dell’acqua, lavo il possibile, mi attacco al rubinetto e resto un tempo lungo non so a guardare l’acqua che scivola sulle mie braccia: hanno resistito le mie braccia, come sempre, “hai braccia esili e potenti“ dicevi un tempo ammirandole.

Un parente, con l’altoparlante chiamano un parente di Roberto. Mi presento.

“Signora, lei è la figlia?”

“No, non sono la figlia”

“E allora non possiamo darle informazioni”

“No, non sono nessuno, infatti”, lo dico con cattiveria e con un senso di sollievo, tanto lo so che ti sei salvato. A proposito, perché volevi vedermi, cosa avevi di così importante e urgente da dirmi? Francamente me ne infischio, riesco perfino a sorridere mentre mi allontano frastornata e sfinita, sorpresa della mia tenuta emotiva e fisica. Torno visibile, tu forse no, ma che importa – tranquilla Jo – sei stata grande.