L'ora di cena

L'ora di cena

Julio avvertiva un certo languore. Davanti a sé aveva aperti tre schermi e sull’angolo in alto a destra di quello principale era indicata l’ora: diciannove e cinquantotto. Quasi ora di cena. Sentiva le batterie scariche, la sonnolenza intorpidirgli il cervello, non riusciva più a controllare quello che scriveva. Rilesse per sicurezza l’ultimo paragrafo che aveva pigramente buttato giù. Era pieno di errori. Refusi, perlopiù, ma anche vocaboli sbagliati, parole usate in maniera inappropriata, fuori contesto. Quel tipo di errore non era da lui, sempre così attento alle parole. Il lavoro dell’ultima mezz’ora era da buttare, e quando era necessario non provava alcun rimorso: evidenziò in blocco le dieci righe in questione, e le eliminò per sempre.

«Ora di cena!» Una voce squillante irruppe alle sue spalle. Erika ruotò la sua sedia in modo da poterlo guardare negli occhi. Lei era bellissima: occhi verdi, lunghe ciglia sottolineate da un po’ di mascara, labbra carnose, denti bianchi. Julio notò i capelli un po’ disordinati, raccolti dietro la nuca senza preoccuparsene troppo. Quella cornice nera di boccoli leggermente ondulati non intaccava lo splendore del volto della ragazza.

«Procedo un attimo alla conta degli elettroliti, prima di lasciarti mangiare.» Disse lei, armeggiando con qualche cavo alla base della sedia. Julio avrebbe voluto che quei cavi fossero ricoperti di tessuto termo-sens, come lo era tutto il suo corpo. Fremeva all’idea di poter sentire Erika che accarezzava con le sue dita affusolate quei minuscoli tubicini di gomma, innestando i jack all’interno delle prese corrette, ormai senza il minimo timore di sbagliare.

«Mh… – Storse il naso. – C’è un po’ di squilibrio, probabilmente solo una leggera disidratazione, ma potrebbe essere una disfunzione epatica, quindi meglio farli vedere al Dottor Maria Gomez.»

Premette un paio di tasti sul touchscreen della stampante alla sua destra, e questa si mise in funzione, iniziando a gettare inchiostro sui fogli bianchi del cassettone sottostante. Erika restò inginocchiata ad attendere le stampe, con lo sguardo un po’ assente, rivolto verso la macchina ronzante. Un ricciolo di pochi capelli ciondolava leggero appena sopra il suo orecchio sinistro, incapace di nascondere la piccola perla bianca incastonata sull’orecchino. Se Julio avesse potuto allungare la mano, glielo avrebbe scostato con gentilezza, sfiorandole appena il lobo dell’orecchio. Ma all’interno della struttura delle proprio braccia non era stato inserito alcun meccanismo atto al movimento. Non era ritenuto necessario.

«Baciami.» Le avrebbe sussurrato, se avesse potuto muovere la bocca, o schioccare la lingua, o far vibrare delle corde vocali. Ma non possedeva nulla di tutto questo: né muscoli facciali, né lingua, né corde vocali.

Erika raccolse i fogli e li appoggiò sulle gambe di Julio. Che sfacciata! Che gesto audace. Julio poteva percepire il peso dei fogli sulle gambe, appena sopra lo strato di stoffa dei pantaloni. La sua pelle era rivestita di termo-sens, affinché potesse accorgersi del caldo o del freddo nella stanza, o se stesse bruciando, o se qualcuno lo stesse toccando. Lo aiutava a non perdere del tutto la propria umanità, la propria condizione di essere vivente biologico, la sua essenza originale, quella di uomo. Erika continuava a sfogliare il resoconto, rimuovendo i fogli dalla cima e infilandoli sotto la pila. Restava inginocchiata. Di tanto in tanto si inumidiva l’indice passandoselo sulla lingua.

«Ci sono altri valori fuori dalla norma…» Sussurrò. Ma Julio non ascoltò. Notò solo le sue labbra che si schiudevano, le piccole narici che si dilatavano leggermente.

«Sbottonami i pantaloni. Fammi un pompino. Trascinami su quel letto. Scopami.» Le avrebbe detto. Ma se anche avesse avuto la capacità di farle intendere il suo trasporto, la laureanda in ingegneria cibernetica probabilmente sarebbe fuggita gridando. Si rialzò in piedi, sulle lunghe gambe, afferrò le due batterie al litio che aveva portato con sé e le inserì nello scomparto appropriato del sistema.

«Stasera scaloppine al limone e purè di patate.» Disse, con un po’ troppa enfasi. Mosse le dita sulla tastiera e selezionò l’alimento in questione. Il miscuglio di stimoli chimici appropriati sarebbe stato inviato alla corteccia gustativa di Julio, mentre l’amigdala veniva propriamente sollecitata con piccoli impulsi elettrici. «A me invece spetta un triste panino con i sottaceti.» Nell’impostare la cena, Erika sfiorò il volto di Julio con il bavero della camicetta. Julio riuscì a intravederne il collo, la clavicola, una piccola porzione della spalla, tutto illuminato fugacemente dall’intensificarsi momentaneo della luce emessa dagli schermi alle sue spalle. Attraverso quel leggero sfregare della camicia sulla sua guancia, poté richiamare alla mente decine di scene erotiche che dormivano sepolte nel fondo della propria mente, coperte da un pesante strato di polvere. E improvvisamente, come un fuoco, i recettori olfattivi incastonati all’interno del suo naso di silicone ricevettero la visita anche dell’odore di Erika. Fu inaspettato. Quei recettori, stupidamente installati troppo in profondità, raramente si attivavano e ancora più raramente trasmettevano al cervello un segnale diverso da quello dell’odore della plastica, o della muffa. Julio fu inebriato da quello stimolo. Un odore caldo, roseo, acuto, che gli precipitò nel cuore artificiale e gli risalì lungo le sinapsi sintetiche fino alla radice del cervello organico. Una scossa lo percosse con violenza, scuotendo il suo midollo spinale con la forza di una frustata.

Erika se ne accorse, perché gli schermi si riempirono per un attimo di caratteri strani, casuali, poi si illuminarono e poi si spensero all’unisono. Quindi si riaccesero, dopo nemmeno un secondo.

«Cos’è successo?» Si domandò, innocentemente.

«È così che un organismo cibernetico ha un orgasmo.» Avrebbe voluto risponderle. Ma non poteva. I suoi occhi erano solo palline di vetro al cui interno erano state inserite videocamere, e il suo corpo non era molto più sofisticato di quello di una bambola. Certo era grato alla scienza di averlo salvato dall’oblio della morte, di averlo trasformato in una specie di esperimento all’avanguardia. Era grato di essere il primo scrittore ad essere stato reso immortale, ad avere la possibilità di continuare a scrivere, benedicendo l’umanità con la sua cultura, con il suo sapere, con la sua sagace capacità di analisi. Ma ancora più grato era al destino per avergli concesso di essere curato da Erika, senza la quale probabilmente avrebbe già dimenticato cosa significava essere vivo, e la passione, e il desiderio.

«Sembra tutto a posto. Anche le interfacce di scrittura sembra che si siano ripristinate senza problemi, non dovresti aver perso alcun dato.»

No, infatti.

«Oh… capitolo ventotto. Complimenti. Avevi detto che sarebbero stati trenta capitoli, quindi sei quasi alla fine.»

Già.

«Non vedo l’ora di leggerlo. Sarà sicuramente un altro capolavoro.»

Sicuramente.

«Ora meglio che vada a portare questo resoconto al Dottor Maria Gomez. A me non sembra nulla di grave, ma se dovesse esserci davvero qualcosa di grave nelle rilevazioni del sinto-sangue, te lo farò sapere in serata.»

Grazie, Erika.

Il sapore di scaloppina al limone entrò a far parte delle percezioni di Julio, assieme ad una nota di purè. La ragazza ruotò nuovamente la sedia in modo che Julio avesse di nuovo davanti agli occhi gli schermi. Le batterie al litio avevano rifornito il sistema di energia. Tempo di ricominciare a scrivere. Fino alla prossima ora di cena.