Ho rubato al suo cadavere

Ho rubato al suo cadavere

Io le ho viste le sue ceneri, tiepide e brizzolate come i suoi capelli. Affacciarmi in quell’urna e non vedere più il suo viso e non sentire più il suo profumo. E avrei voluto affondarci le mani nella polvere grigia, farne un pasto, granello dopo granello, un’indecente e delittuosa abbuffata. Ma è la puzza, la puzza di bruciato che da quel giorno non mi abbandona. A volte sparisce, concede una tregua, poi impetuosa ritorna e il cuore pare scoppiarmi ma non scoppia, resta uguale battito dopo battito. Vivo.

 

Allora, prima che tutto sparisse, prima di ridurla a niente, ho rubato al suo cadavere una ciocca di capelli. Ho rubato senza pudore una ciocca d’argento per poter toccare il suo ricordo, un gesto insano e disperato.

E ancora prima, prima di rubare l’ho vista spegnersi nel terrore, con gli occhi umidi e vuoti che imploravano pietà, le pupille impazzite puntate al soffitto in cerca di ombre che solo lei poteva vedere. La bocca spalancata come bocca di pesce essiccato si muoveva in cerca di parole che non aveva più. Ed io, impotente e incapace di comprenderla, ho accolto tra le mie braccia il suo fragile corpo, mi sono stretta al suo fianco, viso a viso, ho masticato il suo alito tagliente che sapeva di cera sciolta. L’ho baciata, l’ho ringraziata, ho asciugato le sue lacrime e le mie per dare sollievo a entrambe, un sollievo che fosse a me e a lei comune, e ho infine vestito il suo corpo esangue.

Tre, tre sono stati i suoi ultimi respiri. La morte è arrivata spavalda: Qui comando io! m’è parso di sentire, e in tre lunghi respiri la vita le è schizzata via.

 

Accanto alla sua bara le ho parlato per l’ultima volta, lei vestita da sposa con un crocifisso di legno sul petto circondata da lettere d’addio, fotografie, disegni e un cuoricino di carta. Tutto bruciato con lei.

Nell’ultimo atto ho consegnato le sue ceneri a un loculo buio e già troppo affollato. Altra polvere in eterno riposo. L’affidavo all’oltre e al poi, me ne liberavo senza sapere che dei morti non ci si libera mai.

 

«I nostri morti li dobbiamo o seppellire o seguire, dobbiamo immolarci sulle loro tombe o distogliercene senza versare una lacrima…». Raggelano le parole che Albert Caraco imprime con elegante lucidità sulle pagine di Post mortem, l’opera che scrisse per estinguere il suo debito con la morte della Signora Madre.

Ed io, che di lacrime ne ho versate, estinguerò mai il mio debito? Ho pianto per la perdita di mia madre o per la consapevolezza che finirò anch’io in una bara?

Lascio ai filosofi le residue domande sulle tenebre e sulle angosce umane, lascio ai salvatori di anime le fragranti certezze d’incenso. Io me ne sto nel silenzio del mio utero forato ad ascoltare l’ingannevole canto della vita che è sì necessaria ma non sufficiente.

 

Non essere più figlia, sapere di non appartenere più a nessuno se non a me stessa mi obbliga a divenire altro. Rinascere come in una resurrezione al contrario? Vado sulla sua tomba alla ricerca di risposte che non trovo in un aldiquà incerto e zoppicante. Se la lastra di marmo fosse una porta, ci sbircerei nel buco della serratura per guardarla in faccia, l’oscurità senza nome. Ma la porta da me immaginata non ha serrature e dall’aldilà nessuna risposta mi viene.

Ai miei occhi stanchi non resta che posare lo sguardo sull’effimero lascito materiale, una titanica quantità di fotografie: compleanni, pranzi di Natale, gite al mare, al lago, abbracci e baci rubati, anniversari di matrimonio, lei che sorride, lei imbronciata, lei vecchia già a quarant’anni.

Ma il tormento non arretra e impasta tranelli al mio udito: ecco, mi pare di sentire l’eco lontana degli ultimi respiri, le nostre voci, io che piango, io che rido, io che le chiedo chi sono, lei che ripete il mio nome e no, non sono sua figlia ma sua sorella, e noi che ridiamo, io e lei sole, insieme, ridere malgrado tutto.

 

Il ricciolo di capelli che ho rubato al suo cadavere è quanto di più tangibile mi rimane, tutto il resto si consumerà, è la natura delle cose terrene. La natura umana, invece, esige un feroce corpo a corpo tra la mia coscienza e il senso di colpa per il tempo che non le ho dedicato, per le notti che non ho vegliato il suo riposo. Non hai fatto abbastanza, mi ripeto.

Eppure so bene che il rimorso è soltanto una scusa: al dolore ci si abitua, il suo tepore rinfranca; il dolore diventa un amante da soddisfare con voraci amplessi, un insulso scambio di umori ed escrementi.

Ci vuole tempo, promette la gente. Tempo, tempo… Com’è buffo affidare la propria salvezza a una parola tanto incerta e sfuggente. Allora aspetto il mio tempo: cambio abito, ravvivo le guance e aspetto fiduciosa come una bambina davanti al banco dei gelati.

 

Ancora tre mesi, porta pazienza, mi disse. Ancora tre mesi. Ed io sapevo che era vero, il suo sguardo non mentiva, non mentiva mai. Non c’era più futuro tra noi; solo un presente di giorni che si sciupavano lenti. Ancora tre mesi, mi ripetevo. Ti chiedo perdono.

 

«… i morti sono morti, ma noi viviamo perché essi non siano annientati, le nostre azioni e le nostre opere possono ispirarsi alla loro condotta o perpetuare la loro memoria, più in là non si può andare». Albert Caraco, POST MORTEM