La frattura

La frattura

La nonna è ricoverata da gennaio per riabilitarsi da una frattura al ginocchio. Oggi è il primo di marzo e il suo appartamento è rimasto vuoto per tutto questo tempo. Mamma ha messo le lenzuola sopra i mobili e il divano perché non si impolverino, ha chiuso il gas per evitare perdite e abbassato tutte le tapparelle.

L’appartamento della nonna si trova al piano terra della nostra palazzina e io ho il compito di andarci una volta al giorno per controllare che tutto sia in ordine. Noi abitiamo al piano di sopra. È così che tutti i giorni scendo le scale di marmo del palazzo, sostenendomi al corrimano di legno lucido.

«Non ti appoggiare come i vecchi, tu non ne hai bisogno» mi ripete la nonna ogni volta che scendiamo e saliamo queste scale insieme. E ha ragione, perché ho quindici anni e sono già grande.

Sono scesa per la mia ispezione quotidiana. Quando giro la chiave nella toppa e apro piano la porta, l’odore mi pervade. Un misto di acqua alle rose, candeggina e polvere. La casa della nonna è buia e silenziosa. Le lenzuola posate sugli oggetti sembrano cavalli bianchi immobili. I quadri appesi alle pareti sono ombre scure come pertugi di una fortezza.

Fuori il giorno è assolato: le giornate non sono mai state così luminose a inizio di marzo.

Faccio un giro per le stanze, accendo le luci. Il lampadario della cucina ha una forma asimmetrica, il vetro rosso smerigliato proietta fasci irregolari sulle pareti.

Quando mi siedo a tavola, guardo sempre affascinata quelle strisce. L’ultima volta che ho cenato con la nonna c’era lo spezzatino, ed era dicembre. Fuori faceva freddo.

Nonna siede sempre con le spalle alla finestra, indosso ha il grembiule da cucina e tiene una gamba inclinata come se fosse pronta a scattare per andare a prendere quello che le manca. Sta seduta e in piedi, in una sorta di ambiguo equilibrio nervoso.

Ceniamo in silenzio, mentre lei sorseggia un bicchiere di vino rosso e la televisione è accesa sul telegiornale. Io osservo le sue mani con le nocche spesse, le unghie corte e pulite, le vene in rilievo. Mani forti che mi hanno afferrata e stretta mille volte, tanto che mi sembra di sentire il loro calore anche adesso.

Le mani della nonna hanno molte forme, si trasformano in abbracci, in carezze, lavorano sicure sul ripiano della cucina, sorreggono buste della spesa, cuciono abiti e pantaloni con le pence.  Di fianco al tavolo del soggiorno, sulla finestra, c’è la macchina da cucire e un ampio ripiano dove nonna si appoggia per tagliare la stoffa. Nonna fa la sarta, ma io non so cucire.

Anche se ora è in una casa di cura, non riesco a immaginarmi la nonna seduta su una sedia tutto il giorno, senza fare niente. E soprattutto con le mani ferme. Prendo con me la borsa del cucito e i ritagli di stoffa che ho visto vicino alla macchina per portarglieli. Poi do da bere alle piante: il rododendro soffre la mancanza di luce, rinchiuso dentro casa.

Quando rientro di sopra, la mamma è al telefono.

«Ma no, …aspetti, un attimo… mi dica almeno… Oh! Santo cielo.»

Si siede. Guarda davanti a sé, ma è come se non vedesse niente. I capelli di solito impeccabili prendono una piega confusa, le unghie smaltate di rosso ancora strette sulla cornetta.

«Fabrizio», grida, «Fabrizio!»

Papà accorre in anticamera. In pochi secondi tutto si trasforma in caos. Mamma che si alza ed entra ed esce dalla cucina; con il telefono in mano parla e chiama, chiama e parla; papà che si accende una sigaretta, esce sul balcone e telefona anche lui.

Li osservo ipnotizzata. Ho ancora in mano la borsa del cucito, non so cosa fare.

«Chiara» mi chiama papà.

«La nonna sta male?» gli domando.

«Sto aspettando che mi richiami il dottore. Sembra abbia avuto un mancamento, stanno decidendo se portarla al pronto soccorso.»

Lancio uno sguardo alla mamma. Piange. Fuori il sole brilla ancora intenso come se fosse un pomeriggio di giugno, anche se è solo marzo. Dentro la casa è calato il buio.

Le pareti del salone sono decorate con una tappezzeria di foglie verdi e piccoli fiori azzurri. Troppo ostentata per la nostra casa, dice sempre la nonna. Le ricordano le decorazioni della villa dove era stata cameriera da giovane.

Aveva lavorato tutta una vita, ma ci teneva a dirlo, che l’aveva fatto solo perché le andava, che nessuno l’aveva costretta. Era arrivata all’età di ottant’anni senza soffrire malanni, e non chiedeva mai aiuto. Lei era fatta così.

Anche se il nonno era morto tempo prima, e lei era rimasta sola, si rifiutava di pranzare e cenare a casa nostra tutti i giorni, eppure stiamo al piano di sopra. Credo che per la nonna servire e chiedere siano sinonimi, azioni che ti tolgono la libertà. Per questo non le piace chiedere favori e nemmeno lamentarsi. Quando a fine dicembre è caduta sotto casa e si è rotta il ginocchio, ha cercato un posto dove riprendersi senza dare fastidio a nessuno.

Andiamo tutti in ospedale. Mamma ha smesso di piangere, il pronto soccorso è stipato. Noi aspettiamo fuori, nessuno ci dice niente.

Ogni tanto, quando esce ed entra qualcuno, si apre la porta automatica dell’infermeria. Ed ecco che la vedo. Lei è lì, la riconosco. Sembra un letto dimenticato in corridoio, lì ad aspettare, nessuno di noi che può andare da lei, né parlare con lei. Chiediamo notizie, ci dicono di aspettare.

Le ore successive passano lente, impregnate di angoscia. Mamma rimane seduta sulla sedia accanto alla porta, non si muove. Il suo respiro è intervallato da piccoli singhiozzi, non può fare a meno di pensare al peggio.

Esce un infermiere, ci dice che stanno aspettando il cardiologo.

«E se non arriva in tempo? Cosa staranno facendo? Oddio mio, e se le cede il cuore adesso…»

«Mamma, è solo svenuta. Può essere stato un calo di pressione.»

L’importate è mantenere la calma.

Io riesco a pensare solo a lei, alla nonna. Le passeggiate, il parco giochi, lei che mi preparava la merenda, che quando tornavo da scuola in pulmino mi aspettava alla fermata.

È già sera. Sono passate quattro ore, non facciamo più caso alle facce che entrano ed escono. Le persone fanno conversazione, noi no. È come se nella vita non ci fosse un dopo, senza avere notizie della nonna.

Mamma è in fondo alla sala d’aspetto, con le gambe su un'altra sedia. Papà ha comperato un tramezzino alla macchinetta. Né io né la mamma abbiamo fame.

Ho indosso una maglia a collo alto che mi stringe da morire. La sensazione di questa maglia addosso si confonde con un’altra, più difficile da decifrare. Ha a che fare con mia madre. Lei e le sue dita ingioiellate e il golf di cachemire, il rossetto color ciliegia appena sbavato sugli angoli della bocca. Se ne sta lì seduta a fissare il vuoto, mentre io sono in piedi più in là e la guardo. Provo per lei una compassione malevola. Mi fa pena.

È un’avversione istintiva che non ha nulla di chiaro né consapevole. Mi sembra di aver capito all’improvviso qualcosa di lei. Una cosa terribile. Non è mai stata capace di essere madre. Ha relegato le fatiche ad altri. Ha affidato tutto il lavoro dell’accudire alla nonna. La presenza di mia madre nella mia vita, adesso lo vedo, è superflua. E lei ha accettato questa cosa per il semplice fatto che non sarebbe stata in grado di fare altrimenti. Non la reputo colpevole di questo.

Senza neanche pensarci, le dico: «Vorrei che ci fossi tu lì dentro. Non la nonna.»

«Ma che.dici, Chiara! Non comportarti come una bambina…» mi fa lei.

Non le rispondo. Prendo la borsa che ha appoggiato al suo fianco e la butto per terra. La calpesto. Così, come se fosse una cosa normale. Spingo le scarpe bene in fondo, per schiacciare tutto quello che c’è dentro. Lei mi guarda atterrita, papà non si è accorto di nulla. Lo faccio in silenzio, è una cosa nostra. Ma quello che più mi fa rabbia è sapere che lei non può capire. Raccolgo la borsa, come se niente fosse, e la rimetto dov’era.

Non le do il tempo di replicare, mi giro ed esco. L’aria della sera è fresca, leggera.

Mentre li guardo dalla finestra vedo che si alzano entrambi, vanno verso un uomo in camice che esce dall’infermeria, di sicuro è il dottore. Io rimango ferma a guardare, e aspetto.