PARTITUREQuincy Baltimore

La notte si chiama Anja

PARTITUREQuincy Baltimore
La notte si chiama Anja

Faccio a botte con uno zingaro. Sotto al Tevere. I barboni a fare il tifo usando le Peroni vuote come vuvuzela.

Matti scocciati.

Un gancio in pancia. Subito, a senso. Mi ci sono piegato tutto per darglielo. Mi raddrizzo e gli scampano la testa. Cade, e ci vado giù di tacco. In faccia. Cattivo. Ho le polacchine in camoscio ma quello sanguina dal naso come se avesse pippato la polverina per pulire i panni zozzi.

Ho vinto.

Mi allargo la camicia sudata a far vedere un po' di muscoli a sua sorella. Se ne è rimasta in disparte per tutto il tempo della lotta. Sola nel suo felpone bordeaux da stronzetta del collegio ma che a lei sta una favola, davvero. E poi c'ha quelle gambe... Non ho mai staccato gli occhi dalle sue cosce durante la scazzottata col fratello. Avevo fame e ce l'ho ancora. Mi guarda.

L'ho vinta.

Mi avvicino e le parlo:

«Ti va una birra?».

«Sei serio?! C'hai pure il coraggio di chiedermelo dopo che hai fatto secco mio fratello?».

Ha una voce bella incazzata, senza accento, assolutamente non da zingara ma manco da romana.

L'obiettivo della serata è finirci a letto.

«Non l'ho fatto secco... Guarda», mi avvicino a quel relitto tra le risa sdentate dei barboni, «Alzati stronzo! Annamo a beve», gli urlo chinandomici accanto.

Quello si issa sui gomiti e mi mostra una faccia da imbruttito seriale.

«Tocca mia sorella e ti faccio ammazzare come un cane da tutta Roma, giuro».

Lui sì che parla da zingaro e si sforza pure di fare il romano. Solo sua sorella è di un altro pianeta, spaziale. Con quelle gambe poi è pure normale che sia così, dopotutto.

Accetta la mia mano perché le botte lo hanno reso un mezzo disabile al momento.

«Te la offro anche a te la birra: me sei piaciuto. Di solito gli amici tuoi cacciano fuori lo svizzero quando sono alle strette. Tu almeno sei stato corretto».

Si mette in piedi e scozza a terra un grumone di sangue.

«Ma tu chi cazzo sei, eh?!».

«Uno. Accontentati», taglio corto sorridendo. Mi diverto a prenderlo per il culo anche perché al primo passo falso lo rimetto a letto. Garantito.

La sorella mi si avvicina. Anche l'odore mi fa star male. Il cuore. Mi batte come a un vecchio davanti a due zinne. Riparla.

«Ada, lascia stare...».

Poi si gira verso di me e deve alzare la testa per guardarmi in viso perché è bassina.

«Tu, se proprio vuoi, offricele 'ste birre. Inventati dove bercele però».

«In che senso?». Non la capisco davvero.

«Ci vedi?! Siamo zingari. Che ci vuoi portare al pub?».

«A te ti porterei pure al ristorante»,  le faccio strizzando l'occhio. «Ci provassero a rompermi il cazzo...».

Sorride, piano. Guardandomi. Accelero i battiti. Cazzo, la voglio più che respirare anche domani.

Improvviso. Se rimango lì inebetito rischio che accannano.

«Saliamo su e prendiamo tre peroncini dal bangla e andiamo... Da voi», la butto lì senza timore.

«Tu, amico, sei matto», riemerge il fratello dal coma. «Vuoi venirti a fare una birra al Salario dopo quello che mi hai combinato?».

Metto su una faccia alla De Niro solo per far colpo sulla tappetta.

«'Mbè, qualche problema?».

Mi guarda, il fratello però. Lei fa smorfie di rimugino guardandosi i piedi. Stupendi anche quelli.

«No...», ammette «Però è strano e non so ch...».

«Non c'hai mai portato manco una pischella mi vuoi dire?!», lo interrompo.

Quello mi guarda corrucciato per capirmi meglio.

«Tu sei fuori... Ma che sei un barbone per caso?».

Interviene uno di quelli che tifavano prima belli ciucchi.

«No, è un poeta lui», e ride. Bottiglia a disegnare in aria. Una fossa la sua bocca senza nulla dentro.

«Qui c'abbiamo Coez, Anja», dice rivolto alla sorella, richiamata a raccolta con una gomitatina.

Finalmente so come si chiama. Questa notte avrà il suo nome. Deve.

Mi riguarda. Spero che lo fa perché le piaccio.

«Ok, poeta... Andiamo allora», mi fa con una voce che userei per le mie sveglie.

 

Ci incamminiamo. Io più avanti di una sfilza di passi perché quelli ancora non si fidano a farmisi amici.

Salgo le scale a due a due. Penso a lei. E il cuore mi trotta.

Arrivati sulla strada avvisto subito il minimarket che avevo in testa. Li aspetto ma giusto per non farmela sfuggire.

«Eccolo», gli indico col braccio.

«Senti, noi aspettiamo fuori però», mi fa lui, preoccupato, glielo si legge in faccia. Pure il bangla è un ristorante per quello. Per entrambi.

«Ok. Ma mi seguite fino all'entrata. Non vi lascio qui che poi voi ve la svignate...».

«Cammino da nove ore e sono piena di vesciche», sbotta Anja mettendosi a sedere sul parapetto. «Io, da qui, sicuro non mi schiodo. Vai», e mi ci invita con un gesto. Non riesco proprio ad incazzarmici con quella.

Corro dall'altra parte della strada ma prima di attraversare faccio loro segno con due dita puntate agli occhi: se fuggite vi bracco fino a Prima Porta. Questo il messaggio in sottotesto. Lui sputa a terra. Lei mi ci manda. Te lo mordo quel dito, piccola.

Entro dal bengalese salutandolo con un cenno. Ci vengo ormai da mesi ma dubito che mi si ricordi. Lo capisco dal sorriso.

Prendo due Peroni dal frigo e solo in cassa mi dimentico di quella per il tizio che ho pestato. Torno sui miei passi ad aggiungerne un'altra al carrello. Pago, saluto, esco. Alla prossima.

E loro sono ancora lì.

Da lontano la pelle di Anja sembra caramello. Illuminata dai lampioni e ogni tanto abbagliata da qualche faro. Attendo volentieri davanti al rosso.

Il suo sguardo puntato chissà dove, muove le labbra per il fratello. Fisso il suo profilo. Le ombre sulla mascella a imprimerla per bene nella caldara d'agosto. La sento addosso ma sfumata, siamo troppo distanti.

I capelli che manco distinguo dalle fronde del salice che le si immischia in testa. Solo la felpa non me la sveste in faccia. Tutta nuda sarebbe una statua a dare uno straccio di senso allo scorcio più selvaggio della città. La guardo anche col verde.

Non ricordo di aver mai speso così tanto tempo a guardare una donna.

Non ricordo di aver mai speso così tante parole per qualcuno.

È di nuovo il mio turno. Le auto mi aspettano ancora e stavolta mi involo sulla scaletta di strisce fino all'altro marciapiede, con la ragazza a fare da cariatide alla mia notte. Me lo sento e la sento. Mi tasta con gli occhi.

«Andiamo», faccio a quelli muovendomi di rimando.

A una decina di metri c'è una fermata dell'autobus. Dovrebbe esserci quello nostro se ben ricordo. Arriviamo. Ho ragione ma chiedo conferma.

«Questo?», dico rivolto più a lui che a lei ammiccando al tabellone.

«Sì», fa lui avvicinandosi a me per studiarsi le fermate.

Per sicurezza mi scanso di una tacca, non si sa mai ne voglia ancora. «Scendiamo alla settima poi ne prendiamo un altro».

Me lo guardo a pieni occhi e sbotto a ridere.

«Ma davvero mi state portando a casa vostra?».

Aspetto il tempo di un respiro e riparto.

«Non è che mi fate la festa?».

«Perché, è il tuo compleanno?», mi risponde quello con un ghignetto del cazzo.

«Ti devo spiegare il significato?», gli faccio un po' bastardo.

«Nah... Lo so che vuol dire. Tranquillo», va lui sulla difensiva. «Che zingari hai conosciuto?».

Gli sorrido e poi svolto su lei.

«Ancora nessuno».

 

Arriva il notturno. Mezzo vuoto. Qualche rimastino di ritorno all'ovile, più noi. I Ron, Hermione e Harry del Lungotevere. E con lo sgarro che gli ho lasciato in faccia, Potter può essere solo che lui.

L'autista si sporge a guardarci da cima a fondo.

«Senza biglietto nun salite».

«E perché non dovremmo avercelo?», gli faccio, questa volta bastardo al quadrato.

E lui tranquillo: «De te me posso pure fida' ma quelli, credime, nun ce l'hanno».

«Faglielo mo allora», suggerisco cattivo e nel mentre tasto i jeans per cercare il portafogli. «Tieni», tiro fuori dieci euro e glieli piazzo sulla maniglia del gabbiotto.

«Nun c'ho er resto...», ci prova ancora, a rompere il cazzo.

«Tiette tutto».

E con un cenno do il via libera ai due fratelli.

L'autista si mette il foglio nel taschino e gli si fanno le fossette ai lati della bocca quando vede salire Anja. Poi mi guarda dallo specchietto interno e lo punto malissimo. Non è scemo e capisce l'antifona.

Ci sediamo sul fondo, ai posti da quattro. Io addosso al vetro, il maschio accanto, Anja davanti a entrambi con i piedi poggiati sul posto rimasto senza un culo sopra. Sono bellissimi. Mi metto a dissertare mentalmente sulla curvatura delle sue caviglie quando la sua voce mi fa «Come ti chiami?».

Parlo rivolto ai suoi alluci.

«O'Connor».

Alzo lo sguardo a incontrare il suo. Rapiscimi, perdìo, sei stupenda.

Tiene i capelli in grosse trecce. Tipo rasta ma almeno a vista sembrano lisci. Gli occhi scuri, mezzi socchiusi, da fattona o da orientale; la pelle poco più chiara, giusto un velo di peluria, quella bella, sbarazzina; il naso un po' a patata, simpatico, da morsicare; gli zigomi pronunciati, quasi intagliati, come un idolo.

Ha tutti i crismi di una zingara. La più fica di Roma, mi ci gioco la faccia.

«Ma che cazzo di nome è?», mi fa il fratello riportandomi tra loro.

Sarei rimasto addosso ad Anja per tutta la corsa e ritorno.

«Americano», gli faccio voltandomi verso di lui.

Ha ancora del sangue in faccia e così secco che sembra si sia pittato come i maori. Lui è brutto forte. Della sorellina ha soltanto gli occhi. Due nocciole tirate a lucido. Provo a immaginarmi la mamma.

«Sei americano quindi?», torna all'attacco lei.

«Più o meno...», e alzo le sopracciglia per sdrammatizzare un po'. Perché non mi va di dire altro e lei se ne sta tutta seria e la vorrei veder sorridere, visto che ancora mi manca a registro.

Abbozza qualcosa. A labbra chiuse ma va bene lo stesso. Le schiuderò con un bacio tipo Biancaneve. Tempo al tempo.

«Tu sei Anja invece».

«E io Adam», si intromette il fratello tendendomi la mano.

Pare più un segno di pace. Gliela afferro come farei con un vecchio compagno di classe. Tocca tenerselo buono. Soprattutto dopo averlo conciato a quel modo.

L'autobus supera il ponte e tra poco tocca scendere. Non ci diciamo nient'altro. Lui è un dolore ambulante, lei guarda fuori dal vetro, io me la mangio viva e penso lo noti dal riflesso. Vorrei solo averne la conferma, ma niente, mi resiste. Sceso alla nostra fermata so a memoria le posizioni dei suoi nei. Non ne ha tanti. Quasi nessuno a dire il vero. Ma sfido tutti i tossici a bordo se riescono a trovare quello che ha nell'interno coscia sinistro. Una stella nera nella galassia dei miei sogni più sporchi. Sogni che risalirebbero volentieri il fiume dei suoi contorni, fino alla sorgente che tiene in fondo, nascosta sotto l'orlo di quel felpone troppo ingombrante per la mia vista.

Scendiamo a terra prima che me la fotta in testa.

«Senti Condor ce l'hai una sigaretta?» mi chiede Adam nel momento in cui il notturno si dilegua.

«Sì», gli rispondo ancora su quel bus.

Gliene tiro fuori una dal pacchetto che tengo in tasca. Condor...

«Anche per te?», faccio ad Anja mettendomene una tra le labbra. Sceso finalmente alla sua stessa fermata.

«Oh, sì», fa lei tendendo la manina.

Rieccoci. Mordo il filtro per non mandare tutto a puttane e baciargliela. Accendo per tutti e aspetto ordini dalla guida. Chi sarà? Spero lei, mi va di sentirla più spesso.

Parla. Lei. Non l'avrei detto, ma l'ho sperato: ricordati di farlo più spesso, Condor...

«Dietro la banca c'è la fermata che ci serve», e con la mano della cicca indica un palazzo a vetri più triste di una lapide.

«Altre settordici fermate?», chiedo con un sorriso che sento addosso un po' ebete. Mi specchio al volo sulla macchina parcheggiata di fronte e ne ho la conferma. Penso a quel mio amico delle medie che sperava di rimorchiarsi le tipe con lo schiocco di due dita: si credeva l'unico al mondo in grado di farlo. Che coglione. Proprio come me in questo momento. Settordici...

Ricordati di non parlare mai più a cazzo sguainato. Riservati certe uscite a quando sarai già bello che nudo.

«No, è poco».

Adam lo dice tirando giù il fumo di una locomotiva. Ha la faccia di chi aspira roba molto più tosta di una Winston blu.

«Vamonos allora», e mi schiodo per sollecitarli. E lasciarmi dietro una figuraccia che forse solo io ho percepito. Speriamo...

 

Sotto la banca altri barboni. Provano a dormire ma ormai fa troppo freddo. E non hanno che stracci. Offro a un nonnetto di ritorno da una pisciata qualche sigaretta, mentre Adam si scrosta la faccia sotto il getto di un nasone.

E si ripete la stessa solfa. Aspettiamo in fermata, arriva il mezzo, stavolta l'autista se ne batte altamente di chi siamo e si sale tutti senza intoppi. Ci sediamo sul fondo. Solita formazione, solite occhiate da cannibale verso quella dea, qualche parolina di circostanza, momenti piuttosto umilianti da verbalizzare (schiocco di dita. Me la guardo. «Ma che sei spastico?». Figura di merda. Finiamola qui che è meglio) e dopo una doppia manciata di minuti arriviamo a destinazione. Io sollevato; lei, vorrei, un briciolo intrigata; lui, francamente, 'sti gran cazzi. La mia notte è sua sorella: luna, stelle, venticello sulle guance, magari il caldo del suo corpo davanti a un falò di giornali zuppi di benzina. Lo faccio nella mente.

Siamo in piena autostrada.

Una discesa sterrata, subito a sinistra, ci porta ad un grosso cancello spalancato. Una volante delle guardie appostata all'ombra delle fratte circostanti.

«Non è che mi fermano?».

«No», perentoria. È lei semmai che mi ammanetta. Mi piace da ricovero.

Tutto liscio quindi: metto per la prima volta piede in un campo nomadi.

 

È pieno zeppo di baracche. Ci abiterà più gente che a Frascati.

Li seguo. C'è ancora qualcuno a veglia e un po' di musica nell'aria, ma niente venticello: uno a zero per la realtà.

Ovviamente mi becco tutte le occhiatacce possibili ma guardo dritto. Punto come al solito le gambe di lei: stavolta ne studio la flessione dei polpacci e lo stacco del tallone dalla ciabatta. Più ipnotica di un pendolino, la ragazza. Ma salendo fino all'ultimo piano, quello della testa, sento che ho bisogno di odori, sapori. Voglio sentirla più viva. Sentirmi tale anch'io. Qualcosa di più di un nome sparato a vanvera per darmi un tono. Per non mostrarmi.

Mentre strippo lentamente arriviamo a una roulotte con davanti una schiera di panni stesi a far da steccato. Superato il terzo muro di cinta - su cui penzolano, ad altezza fronte, un paio di slip neri - arriviamo alla porta.

Entrano. Entro. E mi arriva in faccia un odore di sugo di carne. Viene dalla mia sinistra, dove c'è un angolo cottura incasinato come la bottega di un robivecchi. Come tutta casa.

Davanti ai fornelli una donnona con un sedere settantacinque pollici. Quando si volta per salutare i rincasati, sbianca. Ancor prima che le si faccia in tempo a notare un sorriso di bentornati.

«Chi è questo?», fa in una lingua che Adam mi traduce in simultanea.

Altre parole che non afferro, stavolta del ragazzo. La donna mi si avvicina squadrandomi da cima a fondo e mi tocca la camicia come a saggiarne la stoffa. Sono sudato come un maiale. La busta delle birre in procinto di squagliarsi e far trincare il pavimento invece che noi.

La signora riattacca nella sua lingua stavolta rivolgendosi ad Anja. La mia testa registra ancora: la risposta che le da non la comprendo, ma quel tono è più sexy di mille porcate dette all'orecchio. Non voglio ancora dirlo ma mi sto avvicinando a una soglia parecchio poetica di invaghimento. Non è da me. Ne sanno qualcosa i connotati scardinati di quel bifolco di suo fratello. Io so fare bene a cazzotti. Ma con le fanciulle ce le prendo sempre, lo ammetto.

La donnona mi guarda e sorride. Gli stessi occhi dei due. La madre.

Mi chiama a sé per farmi assaggiare il sugo in pentola. Divino. Sembra gulasch. Immagino siano ungheresi allora. Fatti il bagno nel mio sangue come Erzsébet Báthory, piccola Anja, ti scongiuro. Avrebbe un senso averlo in vena. Sento che la situazione degenera a ogni mio pensiero. Picchi duro ma ti ritiri dal ring appena arriva una pronta a scoparti l'anima, Condor?

Condor. Bravo mostro, le menate in testa ti hanno suggerito un nome più fico. Da pistolero. Usiamole 'ste pistole allora...

«Adam ha detto a mamma che sei il mio ragazzo», mi fa lei mentre il fratello corre in bagno e io finalmente poso le birre da qualche parte. Mica capisco dove, a esser sincero. Fa schifo al cazzo il posto in cui vivono.

«Ah...», le rispondo. Non so che altro dire. Sento solo il macello che sto facendo in petto. Difficile pensare a qualcosa di più complesso in questo stato. Glielo dico o no che sto per pisciarmi sotto dalla paura di arrivare a un dunque? Semmai dovesse esserci, quel dunque...

Adam riesce dal bagno e urla qualcosa alla madre. Spollicia in su verso me e sua sorella dicendoci che l'acqua è calda e che ne approfitta per una lavata. Ci raggiunge dopo.

Troppo tardi per andare al cesso a rintanarmi a fare tutte le pippe mentali represse finora.

Rimaniamo soli. Io e lei. La mamma in cucina a canticchiare mentre traffica con la cena.

«È anche per me?», chiedo con un groppo in gola.

«Già...», mi fa lei con un'espressione che non saprei decifrare. Mi tremano le ginocchia. Tiro fuori un'altra sigaretta e me la ficco in bocca.

«Vuoi?», le faccio. La voce come le ginocchia. Accetta e se la stringe nel palmo.

Mi guarda negli occhi. Capisce tutto questa, forse ha capito fin dal principio. Prendo due birre in una mano ed usciamo.

Ci nascondiamo tra due fila di panni stesi. La madre non vuole vederla fumare, mi spiega. Provo ad accenderle la sigaretta ma non riesco a far partire la fiamma. Mi da una mano lei. È fredda.

Fumiamo.

Mentre stappo le birre con le chiavi di casa le chiedo di più sul suo conto: vent'anni, padre morto, nata a Roma, madre slovena.

Le dico qualcosa sul mio: risparmio sull'età e le racconto che dormo in un hotel, che sul mio pianerottolo vivono tre nigeriane con la sifilide; le racconto anche che non ho parenti, genitori, tutti morti, né ragazza, che al momento ho solo lei davanti a me. Ne ho sparate di cazzate ma sorride. Stavolta a bocca schiusa e sento di lacrimare. Non ho parole. Micidiale.

Brindiamo. A quella notte. Spero nostra.

«Sei un sacco carino però, dai... Ma perché gli hai rotto il cazzo in quel modo a Ada?», e mentre lo chiede fuma come una francese. E mentre pronuncia quel "carino" vorrei percorrere assieme al tabacco le strade per i suoi polmoni.

Mi rendo conto di fissarla da un bel pezzo e rinsavisco. Ci mancava solo che mi leccassi le labbra e mi strizzassi la patta dei jeans.

«Stavo con nove pinte sul groppone, cara», spiego, tornando di colpo stronzo, a darmi un tono, il vero trucco delle dita a schiocco per chi non sa stare al mondo come si deve.

«Quando mi ha risposto a quel modo mi è sembrato un dovere azzittirlo». Ma ride di nuovo, perché non sono stato poi così stronzo.

«E poi è venuto a rompere le palle ad Arturo: quel barbone si è fatto la guerra dalle parti vostre, merita rispetto, non ci è andato a scattare foto laggiù...».

Non mi sente e mi si appoggia in spalla con la testa. Profuma di donna. Un odore che non sentivo da una vita. L'ultima mia madre, ormai morta, almeno lì non ho mentito: mi manca davvero un genitore all'appello.

«Sai ballare?».

«No... Perché?».

«Intanto che mamma prepara e Ada finisce la doccia possiamo ballare, se ti va».

Deglutisco giù tutto, anche la birra.

«Vuoi ballare con me?».

«Sei il mio ragazzo, no?».

«Non pro...».

«Portami a ballare, O'Connor».

Quel tono da comando. Sono suo. Mi ha pure chiamato. Niente più Condor, di nuovo meglio O'Connor. Il modo in cui lo ha pronunciato, malissimo, mi ha gonfiato le palle come il vento la vela di una nave. La nave pronta a salpare verso di lei. Speriamo, sempre...

Alza gli occhi e si avvinghia ai miei. Il suo sguardo non fa male.

Getta a terra la bottiglia. Fa lo stesso con la mia. Mi prende per mano.

La seguo oltre i panni, tra le baracche, verso uno spiazzo con dieci barili a lanciare fiamme verso il cielo. Chi ci cucina sopra della carne; chi ci si scalda pure i calli dei piedi; chi ci si avventura con la cicca a provare il brivido di rimanere senza più il naso.

Un ragazzino che pare uscito dal casting di Gomorra suona Despacito alla fisarmonica. Una di quelle canzoni che questa città ha concesso agli zingari allo stesso modo dell'immondizia con cui ci hanno tirato su casa.

Che pensieri profondi, da Bakunin, difensore degli indifendibili. Però un Bakunin morto di fica, un Bakunin che per un bacio di questa ragazzetta sarebbe disposto a rovistare nei cassonetti fino all'imbrunire delle sue palle.

Balliamo. Lei bravina, almeno penso, non ho mai ballato; io una merda, ne sono certo, paio uno storpio.

«Ti va se ci baciamo?».

Ecco, l'ho chiamato, ho sperato ma... che cosa?! Perché me lo chiede?

«Sì». Muto. Che altro? Le dico no e torno a schioccare dita.

Mi bacia prima lei, di lingua, poi entra anche la mia. Con calma. Sa di fumo, birra, di tutta la saliva che le ficco dentro. Ci teniamo stretti in bocca ancor prima che alla vita. Sono le sue mani ad afferrarmi ai polsi, come manette, e a sbattere le mie sul suo sedere, sotto quella chilata di maglione.

«Senti?».

Sento eccome, è in mutande.

«Ok, sei...».

«Sono tua».

«Ti piaccio così tanto, Anja?».

La fisso per capire cosa pensa. Fa su e giù col mento. Chiude gli occhi e balla. Provo a tenere il passo.

«Ma è assurdo! Neanche mi conosci», improvviso. «E se sono andato a letto con una delle mie vicine e ho preso la sifilide, non ci pensi a questo?».

«Non importa».

Non importa, questa è fuori. Sta' a vedere che ce l'ha lei... O forse sono io che capisco male.

Muove la testa a dire no. In realtà segue la musica, non legge le carte come forse sa fare la madre. Balla, e lo fa pure bene, perché mi viene duro quando si volta e mi struscia il culo sul palo. Mi lascia arrotolare il suo maglione fino all'etichetta degli slip, in bilico sull'erezione.

«È bello ballare con te», mi fa girandosi col collo. Mi sorride. Non capivo male.

«Ci stiamo muovendo a caso, colpa mia...».

Colpa mia. Perché l'ho detto?! Forse non voglio più scopare. E ripenso a quello che schioccava le dita.

«Zitto, ascolta».

Ti ascolto Anja. E immagino anche il tuo culo mi stia ascoltando.

«Quindi per te questo è come ballare, chessò, un tango?».

Si gira di botto. Mi si struscia addosso di petto.

«Guardami».

E mi porta una mano sotto la felpa, sopra la schiena. Ecco il tango.

È liscia, fredda, sfioro due nei, altri da mappare. Una goccia di sudore che le solca la spina dorsale. Scendo di nuovo fino alle mutande, seguo il tracciato della goccia giù tra le natiche. Provo a infilarci un dito in mezzo. La guardo come mi ha chiesto.

«Non adesso...». 

Tolgo il dito ma continuo a tenerle i fianchi. Prendo coraggio.

«Touch me, babe / Can’t you see that I am not afraid?».

Stono come un dannato.

«Cos'era?».

«Jim Morrison».

«E che è?».

«Un grande poeta».

«Tuo padre?».

Magari.

«Più o meno...».

James Douglas Morrison O'Connor. Mi viene da piangere per la sua ignoranza. Mi viene da ridere e piangere insieme perché mi sta creando una nuova vita, senza saperlo, piccola stella. I’m gonna love you / Till the stars fall from the sky / For you and I!!!

L'avessi cantata mi sarei sepolto sotto cumoli di vergogna. La bacio. Di peso. Sente quanto ce l'ho in tiro.

Mi avvinghia le mani alla testa e mi morde la lingua. Un dolore che mi timbra di voglia.

«Che cazzo fai?! Ti scoreggia il cervello?».

«Ti ho detto: non adesso», mi ringhia. L'ho fatta incazzare.

Mi guardo intorno per cercare i sicari, suo fratello, il re dei gitani. Nessuno che bada a noi. Il truzzetto di Scampia ha pure smesso di suonare. Ha raggiunto i suoi concittadini al barile fumatori.

«Dimmi tu quando allora», sottovoce, magari non ho scorto i cecchini.

Mi fissa. Prova a pescare un'idea dai miei occhi. Ma io non penso a niente, non fantastico più per paura di rovinarmi la realtà. Che viaggia così di corsa.

«Sarà pronto, dai, andiamo...».

Abbassa lo sguardo. Le pesa sostenere il mio. Ora anch'io incazzato. Ricevo un colpo più duro di quello che ho inferto al fratello. Ma non me la sento di starmene zitto, no.

«Mi ci fai credere e poi niente?!».

«Ti ci faccio credere?».

«Immagino che sai cosa significhi».

Sto bollendo di rabbia. Che mi aspettavo? Di leccargliela davanti a tutti gli zingari di Roma Nord, sotto le note di Despacito o di qualche rumba da scopata? Ok che non ci cagano di pezza ma pure qui vigerà una qualche legge sul buoncostume. Pena di morte per un gringo come me che infila dita nei culi dei gigli del campo. Non sono più tra i miei barboni.

«Abbiamo tempo... E poi non so nemmeno il tuo nome».

«Te l'ho detto, O'Connor».

«Quello vero...».

«Non lo so». Dico sul serio, più o meno, mento. «Dammene uno tu».

Ribattezzami Anja, fammi tuo almeno così. Non appartengo a nessuno, te l'ho detto. Non ho passato, testimonianze a cui poterti fare aggrappare come ti aggrappi al mio corpo. Lo farei, ma non ne ho, non ne voglio avere.

Ci sei solo tu, dico davvero. Ecco perché mi incazzo se mi fai credere che con te posso. Che posso sentirmi addosso qualcosa: il tuo odore, che nascondi sotto al maglione, e poi magari puzzi, già è tanto se ti lavi, immagino, ma non mi importa; il tuo sapore, chissà, ti lecco le tette e sanno di grasso, quello dei maiali, ma non me ne frega un cazzo, lo sono anch'io, un maiale. Tocca i miei pensieri, sono lerci.

Mi piaci, finora mi stai piacendo, spero anche dopo. Spero sempre. Se mi hai trovato sotto a un ponte c'è un motivo. Speravo di farmi conoscere da una come te. Da una come me se solamente mi cercassi fino in fondo, ma non voglio. Tengo cumuli di nomi a fare a botte per restare.

Ce ne andiamo, separati, fino a casa. Spalla contro spalla. Un duello di mutismo. I respiri a poli uguali a spintonarsi. Di continuo. Imbarazzato. Sto perdendo la partita, difficile vincerla, un'impresa realizzarsi.

Non riesco a dirle ciò che penso. Qualcosa che forse non riuscirebbe manco a capire. Jim Morrison è mio padre, dopotutto... Come potrebbe tradurre quello che pensa il mio cuore? Sentirebbe solo che sbatte. Come i miei pugni sulla faccia della sua versione al maschile. La versione brutta, facile da gestire. Facile da pestare a sangue per uno che si caga in mano per uno sguardo che pare promettere scintille una volta a letto. E io una volta steso invece dormo. Venutomi nei pantaloni.

Siamo tornati, soli, io di più, sulla porta di casa.

«Ada avrà finito, ti fermi a mangiare?».

Aspetta sul predellino della roulotte con una mano tesa. Vuole che la prendo. Forse un segno di pace. Non capisco nemmeno se abbiamo litigato.

Ho scavato un oceano di distanza tra il mio e il suo mondo. Io americano, lei più romana di quanto io non riesca ad essere.

Se solo sapessi nuotare, se solo volessi imparare a farlo.

E di colpo sento dove sbaglio. Un colpo alla testa. A scampanarmi un'intenzione sottomessa fino ad ora. "È un poeta lui", diceva il barbone. Scriviamola 'sta poesia allora.

«Vieni qui un secondo».

Sono pronto. A confessarmi.

Scende dalle scalette. Non ha nemmeno sfiorato la maniglia.

Calpestiamo la stessa terra.

«Che c'è?».

«Mi chiamo