DIESISMichele Paladino

Le vertebre

DIESISMichele Paladino
Le vertebre

                                                

È Veronica che preme nervosa, nevrotica, l’indice sul filtro della sigaretta, tanto da lasciarsi cadere la cenere addosso, la fuma in punta di dita come si trattasse d’una fragile pietra preziosa, il pollice opponibile che trema. Vedo i grandi occhi cilestrini da cavalla, iniettati di sangue e rabbia. Accelera i tempi per consumare la sigaretta, trattiene il respiro. Ha il corpo snello di cerbiatto, top nero aderente con scollo a V aderente al seno turgido, ampolloso, costellato di nei che compongono un pertinace sistema di galassie fino agli enormi capezzoli (questa tracotanza del petto mai amata, abituato al preminente e gradevole e flebile seno piccolo alla Kate Moss); mi scruta come guardasse un’immagine interiore che non smette di ossessionarla. Il volto è tracciato da stigmate, piangerebbe, ma non le riesce, evidentemente è decisa, proprio così, insomma, non vorrei farvi perdere altro tempo, per Veronica è finita. Parliamoci chiaro, non è più capace di sopportare i grovigli dell’anima dannata. Che c’avete nel cuore voi uomini schifosi pervertiti e maniaci oltre a fango e cattiveria? Negli ultimi tempi era solita urlarlo nei luoghi affollati: avreste dovuto vedere che figuracce, più distintamente, che figure di merda. È finita, tra noi è chiusa. Non pensi la cosa non funzioni? Senza dare spazio all’interregno delle crisi, Veronica salta anche lo step lucido e cosciente della “distanza”, della “pausa di riflessione”, in pratica un armistizio preliminare tra i due; che avranno un periodo, più o meno lungo, per tornare a scopare promiscuamente con “quelli” e “quelle”(il metro di giudizio dovrà passare attraverso le forche caudine della cerchia di amici, utilizzeranno espressioni del tipo “ma che ti scopi ancora quello?” “ma che te la fai ancora con quel malato, con quella bestia?”), saranno gli stessi poco prima fregiatisi di una damnatio da friendzone, o, semplicemente, non fermentati abbastanza da avere un rapporto da regno della ragione. Dico a Veronica di darsi una calmata ché è solo un momento di debolezza, superabile, e lei replica che sono il solito stronzo egoista, e che del mio piccolo cazzo non sa più che farsene. Converrete: non c’è altra soluzione che rompere. Pomeriggio, c’è quell’aria molto amata da me, da fine stagione, soli al tavolino beviamo una miscela collosa, Jack Daniel’s e Coca Cola, quasi sfatti, impregnati del fumo di sigarette e del tanfo di sudore dovuto all’umidità. Veronica è a pezzi, ha i capelli selvaggi umidi e aggrovigliati, alla nuca ha attaccato un tremulo nastro d’argento. Lei che poteva diventare davvero una grande attrice, roba da Centro Sperimentale, roba da scuole per cui serve un botto di soldi, invece, nella sua bellezza sdegnosa e scostante, è rimasta una dilettante del cazzo dissestata tra idioti corsi di dizione senza spiragli di fantasia e recite pirandelliane da dopolavoro. Ho da difendermi: a vederla così fa una gran pena; ormai, non resta alcun argomento di conversazione se non la paventata minaccia di denunciarmi, darmi il dovuto, la giusta punizione al dolore che le ho causato. Una persona normale si sarebbe già buttata dal quinto piano.

Veronica è sprofondata in un dolore fasullo, piange sommessamente, mi dice che sono stato un manipolatore. Non so dove abbia trovato tutto questo coraggio la docile Veronica, inerme, spezzata nella severa sedia d’accatto del bar. So solo che non ho rimorsi (fingo il viso triste e dritto come a difendermi dall’onore perduto) e che ho bisogno di cocaina pur di sopportare questo pomeriggio. Lei non mi ama, io non la amo, ho solo voglia di scopare, e lei a parlarmi di denunce e sistema di violenze perpetrate nei suoi confronti, manco fossi un torturatore dell’Isis, continua a mormorare che le sarà difficile guarire, che quell’inetto dello psichiatra ha detto che le si è ribaltato l’inconscio e il suo “essere tra gli altri” ha subito una ferita irreversibile come il taglio materico sferrato da Lucio Fontana alla tela (che qui siamo tutti gente astuta, che l’arte l’ha studiata). Io dovrei formulare domande, chiedere, ma la voce mi resta inchiodata in gola, faccio una fatica immane ad ascoltarla, non mi ferisce minimamente, aspetto solo il momento in cui lei abbia il buon gusto di tacere. Veronica mi accarezza la testa, urla che sono una merda, fugge via. Annuisco con il capo all’evidenza. In auto mi lecco le cicatrici che ho sul polso, segno del mio primo tentativo di suicidio. La pelle, al contatto della lingua rasposa, mi brucia.  

Lei avrà 26 anni, una gelida ragazza occidentale, un viso morbido e stanco, cova una bellezza simile al fuoco ritroso sotto la cenere, modi elusivi e schernevoli, rigida come un giunco prossimo a spezzarsi, siamo a questa festa di laurea di amici in comune nella villa del padre di Maurizio, un ingegnere chimico sfondato di soldi. Si tratta perlopiù di feste di una noia mortale: difficile prenderle sul serio. Sono le due del mattino e fa un gran caldo. A testa bassa, mi dirigo verso di lei, stendo i nervi e dico: «Ah, bella festa inutile…» e mi fermo, lei sorride con un sorrisetto schivo e ombroso, mi accorgo che maschera una inerme consapevolezza, intuisco che ha voglia di smontare quel trascinarsi smortamente nel deserto della vita. Veronica è compagna di una livida spossatezza esistenziale, per colpa di una madre che la protegge dal “mondo”, si fida solo di lei, e della comunità religiosa delle Suore carmelitane. Ha fiducia nella sua bimba che è riuscita a laurearsi a pieni voti in Storia dell’arte con una tesi sul “valore plastico” nella Madonna del parto di Piero della Francesca. Inizia a odiarla, mentre la vede riporre con cura i rosari della Stabat Mater o quando rivolge il segno della croce al crocifisso intrecciato al ramoscello d’ulivo o quando finge devozione verso i numerosi santini della Madonna nera dell’Incoronata di Foggia. Veronica vorrebbe confessarle di un suo sogno ricorrente in una luce sgranata e amorfa da VHS: il confondersi vischioso della lingua di sua madre intrecciata alla bava di un’altra donna, Stefania, a sancire la comunione delle anime saffiche. Come in uno spietato e sublime gioco di tarocchi, Veronica vive l’esistenza dell’appesa. Il padre vive di continui scompensi umorali per colpa di un crollo nervoso al lavoro, in quel grande schiacciasassi del marketing contemporaneo. Gli tremano le mani, gli tremano di brutto, si accende una sigaretta, appesta l’aria, e poi gli viene la nausea. È a casa a sbroccare contro i compratori turchi, se ne sta ad ascoltare al telefono una delle segretarie, con cui poche settimane prima ha avuto una sveltina sul tavolo di vetro della sala conferenze. Lei apre le gambe, alza su la gonna, l’uomo ha gli occhi affilati, la bocca tesa, tira giù le mutandine, sfrega con il cazzo il sesso della donna, la penetra, mentre la donna ha un risolino compiaciuto. Cosa sono i genitori se non una serie di metastasi nascoste nei figli incapaci di costruirsi una propria, libera identità?

Della mia famiglia riesco solo a pensare che mi hanno deviato. Non so perché penso una cosa del genere. Sono stato sempre e solo una delusione sin da bimbo. Mi insegue da tutte le parti la faccia di mio padre che mi fissa dopo una delle mie malefatte. Abbasso gli occhi, metto a fuoco, sto perdendo sangue dal naso, la mano di mio padre è punteggiata di rosso, continua a fissarmi, ha un’erezione, e dice che la mamma non ha il polso della situazione e che poi lei ha i suoi problemi con la vita-di-tutti-i-giorni. Ha il comodino colmo di medicine. È stata ricoverata in ospedale per un tentativo di suicidio e si è fatta una settimana al centro d’igiene mentale e penso che io no, non voglio essere qui, non voglio essere qui nello stesso momento in cui mio padre aspetta alle dieci del mattino l’ambulanza della Misericordia che lo porterà in dialisi, indifferente, rinserrato nella nera malinconia. Mio padre ha il cancro. Le sue lacrime ogni giorno scendono inarrestabili.

Ora siamo io e Veronica, in testa le pulsazioni del Cointreau della sera precedente, giriamo in ricognizione tra chiese e chiesette di campagna, abbazie e luoghi votivi. È il primo lavoro commissionato dalla Soprintendenza a Veronica: studi per un progetto di catalogo sulle Madonne d’Appennino. È un venerdì di giugno, c’è un bel sole caldo e io decido di darmi un po’ da fare aiutandola a codificare l’origine storica di alcune tele. Veronica parla molto, non comprendo bene quello che dice. Sostiene che l’arte è piena di outsider a cui non è dedicata alcuna riga. Faccio un sorrisino ebete, un segno di approvazione col capo, continua a sostenere con una certa aggressività e leziosità che noi due siamo sbalzati dall’argento delle icone bizantine: lei uscita da un dolce lembo dorato di Vergine gotico arcaizzante e io, viceversa, uscito da un campionario di teschi di bimbi, elmi simili a chimere con occhi da cui esce del miele sintetico. Dico ok e le sorrido, apro una bottiglia di rosso scuro, sorrido ancora e la guardo, pensavo fosse ironica, invece è mortalmente seria; bevo e le porgo un bicchiere da cui butta giù un sorso di Aglianico. Non provo imbarazzo quando, distolto lo sguardo da lei, finisco col distrarmi con la coroncina di una Lacrimosa coperta di bende, chiusa in una nicchia, mentre lei si infervora e dice che le “belle idee” sono andate a farsi fottere, gli archetipi saltati e tutto il mondo è stato mangiato dall’ombra. I simboli e i valori sono diventati indecifrabili e oscuri come nel congetturare difficile di Eraclito, e che l’uomo, come nel Caravaggio, è il dolore che produce: e l’amore? diventato un modo come un altro per fiaccare il destino. Non so cosa voglia dire, non sta a me spiegarlo. La seguivo come inibito da una forza magnetica. Mi chiede se io sono innamorato di lei e io le dico sì con aria annoiata e altera, le carezzo la testa, e lei esclama con orgoglio che ieri notte ha sognato di suicidarsi dentro Santa Maria della Vittoria, davanti alla “conturbante” e “visceralmente erotica” (non posso non evidenziare la morbosità malata nel dire queste frasi da parte di Veronica) “Estasi di Santa Teresa” del Bernini, afferma che all’estasi mistica ci si può avvicinare solo oscillando nel peccato, nel vizio, e che solo mescolandosi al dolore si sfugge al linguaggio. L’unità è nell’annientarsi, come Santa Teresa nella smorfia di piacere infinito. Piacere, a noi, inaccessibile perché lontani dal fuoco dell’ebbrezza erotica. Dal rosone della chiesa una luce incredibilmente forte mi colpisce in faccia tanto da farmi perdere l’equilibrio. Adesso mi sento un prolungamento di Veronica. Usciamo dalla chiesa e attizzato da quella luce e dall’Aglianico stendo due piste di coca sulla custodia del mio Huawei. Ce le tiriamo pregustando l’amaro al palato, e ce la ridiamo, e lei mi tocca il culo, poi finiamo a fare l’amore protetti da una pianta di ibisco. Quando sono sopra, lei ribalta gli occhi al cielo, trattiene il respiro, è l’ultimo respiro del mondo. Gli occhi diventano fiori.

Veronica indossa una minigonna blu e occhiali da sole, siamo rovinati dalla cocaina, giriamo a cazzo, nel Suv Bmw X5 di Cesare. Meglio sorvolare: è il nostro apprendistato alla borghesia. Ascoltiamo Ghost Rider dei Suicide, insonni, alle sette di mattina con gli occhi piagati. As usual. Veronica parla di “furore dionisiaco”, di noi “punk mistici” allo stato selvaggio (Rimbaud fecit), dice anche qualcosa del tipo che aggrapparsi a se stessi in mezzo all’esistenza delle cose è impossibile, ogni volta ci si affida all’altro come ci si affida a un destino, robe del genere. Mentre lo dice mi fissa con un sorriso da scema. Cesare stringe con più forza il volante guidando attento nell’aurora del mattino, ci fermiamo in spiaggia, tra le case costruite nel dopoguerra e poi condonate e mangiate dalle macchie di umidità. Cesare sbriciola l’hashish nel palmo della mano, impasta l’intingolo con del tabacco e con la mano tremante accende la canna, inizia ad aspirarla lentamente, guardo Veronica nelle iridi screziate d’oro dal riverbero del mare, penso a una proiezione onirica e virtuale di un’alba destinata a durare in eterno. Poco dopo, preso da uno spasmo, mi addormento. Vedo fanciulle a pelo sui dorsi dei cavalli, Lady Godive demoniche dai capelli alogeni e dal volto in necrosi, immagini moltiplicate come le scale di Escher.

Mi sveglio e mi ritrovo rannicchiato in una veranda, ancora in botta vera e con la camicia appiccicata alla pelle. Cesare mi punzecchia il braccio e mi avverte che siamo nella villa di un suo amico, un mezzo broker di provincia, un mezzo magnaccia più che ventenne che per emergere sarebbe capace di assoldare un killer dal dark web. La villa è dei nonni, ha la carta da parati arancio con elementi déco, la cura scarsa, e le poltrone e i divani bucati ai lati da anni di bruciature di sigaretta. Insieme al broker, nel salone, un ragazzo sulla trentina, studente arrugginito dell’antagonismo bolognese, e una biondina, capelli lunghi, abitino estivo nero, shorts sbrindellati, cappello a borsalino e anfibi chic Dr. Martens. I due si direbbero distanti tra loro, ma il primo dalla dentatura marcia grida infervorato che bisogna andare in culo allo Stato, al governo e alla polizia; la seconda, insistente, afferma che i marxisti stanno tornando e per decenza bisognerebbe ricominciare a fare l’amore per strada. Simpatico, il nostro broker fiancheggiatore del neoliberismo che ha introdotto in casa una sciroccata marxista inveterata e un disperato discepolo dei centri sociali. Siamo tutti annoiati. Cloe, ecco il nome della ragazza, sorride, e senza girarsi caccia dalla borsetta Prada una boccetta con dentro della K, si schiarisce la gola, e ordina al broker di prendere la vodka tonic. Parla sottovoce, alzando col passare dei secondi la voce di un’ottava. In strada, poco oltre l’erba incolta del cortile, i primi capannelli di pensionati bagnanti. Cloe mi racconta che il piacere vive al lato opposto rispetto alla ragione (oh no, ci risiamo, anche lei!). È un qualcosa che esonda da quel velo senza né capo né coda dell’uomo rammendato ai propri bisogni e comportamenti civili. La civiltà è completa astrazione. Come presa da un’emanazione sciamanica, mesmerica e vibratile, ripete a voce alta, con quell’occhio da regina normanna, A-S-T-R-A-Z-I-O-N-E. Prima di concludere, afferma: “Ci si lega al piacere come la porta si lega al cardine.”

Concetti molto interessanti, non meno della striscia stesa sul tavolino di vetro. La tiriamo su con le narici, quasi con generosità, mentre tutti gli altri si passano uno spinello. Cloe perde sangue da una narice, cerca di umettarla con un kleenex, si avvicina, tipo, che vuole abbracciarmi, e con estrema finezza serra le mani sul cazzo, dicendo qualcosa come: «È che sono presa dal deliquio celestiale…», e mi indica una stanza oltre la cucina. Gli altri sono stesi finiti sui divani.  Tenendomi stretto per la camicia mi conduce in una stanza dal discreto puzzo dolciastro di fiori marci, senza colpo ferire ci gettiamo tra le lenzuola alonate da tracce archeologiche di sperma. Cloe ammicca un sorriso malizioso: «Ho la consapevolezza ermeneutica che tu voglia scoparmi forte…». A “ermeneutica” ho la netta sensazione di stare a letto con una pazza, il che amplifica il mio desiderio sessuale. La luce della stanza è rossa, di un languore decadente, sembra di essere a Berlino, in una di quelle dark room con il volume della techno a livelli inaccettabili. Senza parlare, mite, scosto le mutande dall’elastico debole, e con due dita indugio nella parte più alta della fica, appoggio il mento nel nerastro sottostante. Lei, alle prime onde della lingua, inizia a tormentarmi i capelli. La fica le si gonfia. Prendo il pisello e lo fisso nel solco umido. Mentre le sono dentro, Cloe parla molto piano, sussurra dottrine esoteriche, geme lentamente, la riporto a me, e vengo sul pallido seno solcato da venuzze verdognole. Davanti alla porta, Cesare ci osserva, circonfuso da un misto di soddisfazione ed empietà, dice: «Non posso farne a meno, mi piace guardare!».

Mattina. Sole alto. Poche nuvole in sospensione. La spiaggia è piena di turisti pugliesi abbrutiti dall’abbronzatura. Piccola e tremante sul sedile posteriore, Veronica contrae lo stomaco, contrazioni anomale, le vengono i conati, i capelli attaccati alla fronte come chi si lascia andare via eroso dai farmaci. Nessuno l’ha disturbata appena arrivati in villa. È più vicina al confine della morte che della vita. Ci sentiamo soli. La Bmw passa alla rotonda, andiamo verso la luce del mare di porpora.