Piovuto dallo spazio - L'ultima notte felice del mondo

Piovuto dallo spazio - L'ultima notte felice del mondo

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Presentiamo “Il circo dei fiori recisi” di Sergio Gilles Lacavalla, proponendone due estratti

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Tratto da Il circo dei fiori recisi

Piovuto dallo spazio (segue L’ultima notte felice del mondo)

«Ti dà un’aria un po’ alla Querelle», ti ha detto lei guardandoti riflesso nello specchio. Ti sei osservato pochi istanti e siete andati a pagare. Sei uscito in strada con il berretto in testa. L’uomo del negozio di cappelli ti aveva spiegato che il cappello va indossato con distrazione, con esibita trascuratezza, senza neanche guardarsi allo specchio sarebbe il modo più corretto. Ma il berretto era nuovo e quindi qualche secondo dovevi pur spenderlo. Se non altro per metterlo inclinato al punto giusto. Sapevi che la cosa più importante era farlo scendere su un lato della fronte, su una sola tempia. Il cappello va portato obliquo. Una volta capito il lato giusto e la giusta pendenza, potevi metterlo anche senza bisogno di guardarti. Quel giorno di tre anni prima, però, non era il berretto di Querelle che indossavi ma un borsalino da pellicola di Jean-Pierre Melville. Lo tenevi abbassato sugli occhi celando lo sguardo quando l’anziano professore te lo ha sollevato facendoti scendere i capelli sulla fronte e ti ha detto, fissandoti: «Sei caduto dal cielo?» Non sapevi che rispondere, hai abbassato gli occhi scoperti e poi, rialzandoli verso lui, hai detto: «Può essere».

«Sì, può essere», ha detto lui continuando a scrutarti. «Può essere».

“Che strana ragazza è lei”.

“Perché?”

“Piovuta dallo spazio”.

Sembrava un dialogo del film Carol. Solo che lui non era Cate Blanchett, tu non eri Rooney Mara e quello non era un film di Todd Haynes né tantomeno un romanzo di Patricia Highsmith – ma su questo aspetto si potrebbe parlare. Pensi più al film che al libro, anche se lo scambio di battute era lo stesso. E non era neanche il periodo delle festività natalizie del 1952 a New York. Era solo un pomeriggio di fine maggio del 2016 in un bar del Quartiere Latino di Parigi vicino all’Istituto Jean Nicod dove un tuo amico docente di filosofia aveva tenuto una singolare conferenza dal titolo Western americano e metafisica davanti ad alcuni colleghi, qualche studente e al suo ex professore di filosofia analitica che ora ti fissava bevendo acqua tonica che versava dalla bottiglietta con un movimento lento e attento a raggiungere l’orlo del bicchiere con lo spicchio di limone dentro. Tu bevevi rum e Cola. Una Schweppes dietro l’altra, non faceva in tempo a finirne una che ne ordinava un’altra. La bella barista gliela portava, un po’ incredula per quel consumo fuori controllo. Ti aveva detto il tuo amico del west, con lo Stetson originale da cowboy da quattrocento dollari poggiato vicino al whisky, che il suo professore aveva divorziato dalla moglie in tarda età a causa probabilmente dell’alcol, allora aveva smesso di bere e quelle bibite dovevano sostituire il precedente vizio. Mentre il tuo amico continuava la sua lezione per due studenti, una ragazza e un ragazzo, che sicuramente stavano insieme, e tre professoresse che sorseggiavano caffè e tè al vostro stesso tavolo, il vecchio professore ripeteva «Può essere». Ti guardava e diceva «Può essere».

«Già, può essere», facevi tu. Forse si riferiva a una breve discussione sui mondi possibili e la fantascienza con la quale avevi intrattenuto alcuni studenti e qualche professore prima della conferenza. Ma no, quell’argomento non c’entrava niente con il suo sguardo rivolto, attraverso te, a chissà quale suo mondo ora impossibile, un passato lontano ormai perduto nello spazio, un ricordo confuso riverberato in te. Non lo capivi. La vostra conversazione, comunque, quel pomeriggio era tutta lì: «Può essere». Non c’è davvero altro da dire. Quando siete andati via, passando davanti al bancone del bar, il barista ti ha guardato e ti ha detto che gli ricordavi Alain Bashung dei tempi di Vertige de l’amour, con quel cappello portato indietro e il ciuffo che scendeva sulla fronte. Ha guardato la cameriera cercando approvazione, ma lei ha fatto una smorfia con la bocca per dire Non mi sembra. Poi l’anziano professore ti ha preso sottobraccio portandoti fuori dal locale.

«Può essere», disse ancora. «Caduto dal cielo: può essere».

Il gruppetto di docenti e studenti intanto vi ha raggiunto e il professore ha lasciato il tuo braccio per essere trascinato in una discussione filosofica che ti sembra di aver capito mettesse insieme Wittgenstein, David Lewis e John Ford. Hanno attraversato la strada bagnata dalla recente pioggia che affliggeva la città da un mese. Tu sei rimasto indietro e ti sei voltato verso il bar, la cameriera stava portando via le tazze, i bicchieri e le bottigliette di acqua tonica dal vostro tavolo e, da dietro il vetro, ti ha guardato e ha fatto di nuovo quella smorfia con la bocca arricciando il naso che significava Non mi sembra e ha scosso la testa. Le hai sorriso e hai riabbassato il cappello sugli occhi.

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Tratto da Il circo dei fiori recisi

L’ultima notte felice del mondo

Si può dire che della vostra storia non rimanessero che pezzi. Come fotogrammi di un film malriuscito. Solo di una parte: la bocca, un seno. Il pube.

Una mano contratta sulle dita. Lo smalto sulle unghie. Un copione interrotto.

Una novella senza i paragrafi essenziali. Breve. Banale. Una pièce monca di troppe scene. La schiena che finisce sul solco dei glutei. Le cosce. A volte abbronzate. A contrasto con l’epidermide chiara del sedere. Solo trailer, il primo tempo, quando si riesce a vedere una sequenza più lunga. Mai il film integrale.

L’intero lavoro teatrale. Tutto il corpo. Dell’ultima volta ricordi bene le labbra che prima di andare via sussurrarono qualcosa che non capisti. Ma era soltanto un frammento di frase. Le parole si interruppero d’un tratto. Come se si fossero pentite di ciò che stavano per dire. Qualcosa di necessario. Senza alcuna importanza. Non c’era stato nessun discorso. Nessun vero dialogo. Soltanto pezzi di un monologo. Nemmeno ben riuscito. Hai sognato dei fogli. Erano le pagine di un racconto confuse con quelle della pratica di divorzio. Sembravano più fantasiose queste ultime. Forse perché la verità l’hai sempre riservata alla scrittura. Il matrimonio era una fuga dalla verità delle parole. Parlavate poco.

Non avete mai finito un dialogo. All’inizio magari sì, allora potevi vedere il suo corpo per intero. Lo vedesti per la prima volta la mattina dell’ultimo dell’anno di cinque o sei anni prima. Lei dice dieci, ma lei ama esagerare.

Non si era tolta solo le scarpe.

Sul muretto del ponte c’erano anche la gonna e un golfino. Un giubbotto. Un paio di calze, il reggiseno e le mutande. Le mutande erano arrotolate. Il pube era depilato. Ma i peli, neri, stavano ricrescendo.

«Sei trascurata», le dicesti.

«E che importa, ormai», ti rispose.

«Potrei graffiarmi le labbra», le facesti notare.

Lei scrollò le spalle e oscillò leggermente.

«Attenta che così andrai di sotto», le hai detto avvicinandoti di più.

Si mise a ridere con sufficienza.

«Non hai capito che è quello che voglio?».

«Io invece non voglio graffiarmi le labbra. Ma affronto il rischio. Anche di pungermi i lati della bocca».

«Ma dai, nessuno vuole graffiarsi le labbra. Ce l’hai un rasoio?».

«No, dietro no. A casa sì».

«Lascia stare», disse scocciata e oscillò ancora. Notasti le piante dei piedi sporche. Hai pensato che fossero sporche d’asfalto.

«Hai camminato scalza?».

«No, cioè non qui, sul ponte: le scarpe e le calze le ho tolte salendo. È che non pulisco casa da giorni. Lì cammino sempre a piedi nudi».

«Sei una ballerina?». Le hai chiesto toccandole i piedi induriti.

«Non sono più niente. Ho solo voglia di fare la pipì».

«Be’, allora falla. Non trattenerla».

La fece. In piedi. Lasciandola scorrere nel fiume e su una coscia con la pelle ricoperta di brividi e una leggera peluria chiara, visibile solo in controluce, intirizzita dal freddo.

Il vento che soffiava sul ponte le aveva spinto l’urina sulla gamba sinistra. Eri così vicino a lei che ti bagnasti un po’ il viso e le labbra. Odore e sapore di alcol.

«Mi spiace, scusami», ti disse accennando un sorriso.

«Ho brindato al nuovo anno appena alzata dal letto. Forse era ieri notte».

«Brindi con il whisky?».

Scosse le spalle e oscillò di più. Le afferrasti la caviglia. Le carezzasti la coscia bagnata.

Lei si voltò verso di te e brindasti anche tu con quello che le era rimasto della sua bottiglia. Non ti graffiasti le labbra. Il sapore dell’urina alcolica si trasformò presto in altro liquido. Aveva odore acido. All’inizio era denso e lattiginoso. Via via più diluito e trasparente. Ti bagnasti di più il viso, il liquido scese sul collo.

Anche la tua camicia si era bagnata. Era nera. La pipì e l’orgasmo l’avevano resa lucida in più punti. Il nero più scuro. Macchie irregolari. Piccoli schizzi.

«Adesso che abbiamo festeggiato il capodanno puoi lasciarmi andare, no?».

«No», le hai risposto deciso.

«No?».

«No», hai insistito con dolcezza.

«Lasciateli ricrescere, sì i peli, lasciateli ricrescere», le hai detto carezzandole il pube ruvido.

«Ci vorranno dei giorni».

«Posso aspettare».

«Vuoi che mi lavi anche i piedi? Dovrei però prima pulire il pavimento».

«Ti aiuterò».

«Mi aiuterai a rimettere in ordine?».

«Ci proverò».

«Ci proverai, già. Con me è difficile. Non saprei da dove cominciare. Non sapremmo da dove cominciare. Il pavimento è proprio sporco, sai?».

«Comincia a scendere», le hai detto allungando una mano. «Poi vedremo».

«Apriremo la porta a quelli della Folletto?».

«Compreremo anche la scopa a vapore della televendita».

«Quella che non inquina. Con il trenta per cento di sconto, solo per oggi».

Lei afferrò la mano. Era più minuta di come appariva sopra il muretto. Il suo corpo nudo davanti a te era esile e perfetto: seno piccolo, pancia piatta e cosce snelle.

Quando si girò per riprendere i vestiti, notasti la sua schiena muscolosa come le gambe e l’addome, e il sedere più bello che avessi mai visto. Si rivestì e tu le mettesti le scarpe. Lei disse che era un gesto gentile.

Andaste a vedere il presepe erotico in una chiesa sconsacrata. La Madonna teneva la gonna alzata. Era senza mutande e indossava delle calze a mezza coscia, quelle chiamate parigine: un’immagine molto in stile dark cabaret.

«Non è la Madonna», disse lei. «È Maria Maddalena».

«È la Madonna. Ti dico che è la Madonna», replicasti tu. «Maria Maddalena non c’era ancora alla nascita di Gesù».

«Se è per questo neanche San Sebastiano», disse lei indicando il santo nella sua tragica posa trafitto dalle frecce sulla destra dell’installazione. «E poi tu che ne sai?».

In realtà non lo sapevi, non ne sapevate granché nessuno dei due di religione.

Provasti a insistere, senza riuscire a convincerla. Chiudeste la discussione con un bacio sotto il vischio, con una settimana di ritardo e una canzone di Nick Cave & The Bad Seeds di sottofondo. Ti piaceva il suo alito. Non doveva essersi lavata i denti al risveglio, la sua bocca sapeva della notte trascorsa e di stanchezza. Pensasti che fosse un modo per essere sinceri. Era un alito estraneo e familiare allo stesso tempo. Il sapore e l’odore di baci passati. Di quelli a venire. Dei baci per te.

Al supermercato avevano ribassato i prezzi dei dolciumi. Cenaste con il panettone.

Il suo alito era buono anche al gusto di panettone, con i canditi e l’uva passa.

Temevi che avreste discusso sull’opportunità dei canditi nel panettone. Invece non disse niente. Restò solo per alcuni secondi pensierosa a fissarne una fetta.

Tolse la carta intorno con lentezza. Assorta. Brindaste al nuovo anno con il Grand Marnier e i suoi umori che ora non sapevano più di whisky. Solamente un leggero retrogusto d’arancio.

La luce dell’appartamento le disegnava le forme in maniera diversa dai riflessi del sole sul ponte. Il suo corpo sembrava uscito da un fumetto in tricromia. O da un film della nouvelle vague. A tratti da una pellicola noir.

Ti disse «Ti amo con tutta me stessa».

Il suo corpo visto per intero era bellissimo. Il suo corpo era “tutto se stessa”.

Non avresti potuto desiderare di più. Hai avuto la fortuna di poterla guardare girare per casa con un maglione che le copriva a malapena il culo e le gambe e i piedi nudi.

Poi è subentrata quella frammentazione, non ricordi quando, ma di certe cose non si ricorda mai quando, e anche scopare divenne un fatto di pezzi.

Dell’ultima volta ricordi anche le dita dei suoi piedi sulle tue labbra mentre la penetravi nella fica. Le succhiavi, carezzandole il polpaccio e l’interno della coscia. Le hai morso il tallone. Ricordi la sua pancia che respirava affannosamente mentre le leccavi la vagina, la clitoride. I peli nella tua bocca (sì i peli ricrebbero presto, folti e lucidi, e non se li rasò più – se non un’aggiustatina quando d’estate metteva il costume nelle vacanze al mare) e la pelle, le labbra, le piccole e le grandi labbra, l’umidità, la saliva e gli umori sempre così abbondanti. Li ricordi bene. Il corpo era segmentato dal tuo sguardo e dalle luci che arrivavano dalla strada nella stanza buia.

[…]