Sul monte Licabetto

Sul monte Licabetto

C’è la luna. E l’acropoli, forse. Montagne altissime. È come un presepe, sai? Tu mostri tutto, tranne la luna. Lei sta.

Stradine che sono sentieri sussurrati. Tu vai da qualche parte, io ti seguo. È tutto qui il dogma. Se apri è perché svendi. Lo so che svendi. Mi ero preparato anche a quest’evenienza. Ed è solo un altro studiarsi. Vai poi a capire perché.

E quando sono dentro te, quando sono dentro, una mano stringe eriche vischiose di capelli, gambe a cavalcioni su trochi di giunco. Intrecciati a liane di sospiri, tutto scivola via e poi si spegne. Non è che ci sia una direzione, quanto piuttosto il respiro impercettibile di un'aurora in lontananza.

Una volta che è dento di te sei morto! Sei finito. Lei ti ha capito, ti ha preso! Più alcuna possibilità di salvezza. Lei sola, sarà la tua salvezza. Hai capito di che si tratta? Non ce n’è più per nessuno. Non ce n'è.

 

In undici anni non ho mai visto il suo seno. È indubbio che ciò debba essere chiamato amore. Undici anni. E due aborti. Centomila separazioni e litigi. Ho visto qualcosa, in alcune circostanze, ma non era un seno, era qualcosa. Lei ha negato, come al solito. Era mica un corpetto, quello. Non un bustino. Paranoie, quello erano. Capisci tesorino sciocco?

Ostuni è stato il primo avviso. Eravamo su di una terrazza panoramica. Sotto di noi la città bianca coi suoi appezzamenti verdi marroni gialli policromi. Tutte le attrattive di questa terra ancora intatta a un tiro di schioppo. Il vento c'era, che spirava dalla piana direttamente in faccia. S’alza tutto, tutto si alza. Anche i capelli di Margot si alzano. Sai che fa come un braciere?! Fushhhhhhh! Così fa lei quando arde. E ha gli occhi belli, lo giuro su Dio, gli occhi più belli che siano mai stati visti. Perle da bigiotteria. Lei ti guarda e ti ha già scopato. Fottuto. Bello, sei andato. Te lo giuro, sei andato.

Ha avuto uomini avanti e dietro, sopra e sotto. Di lato, parallelamente, alternati. Tutto quello che vuoi. Thaf. Htaf.ahhhhh… Mamma che ha fatto. Che ha fatto? Ha. Questo ha.

E poi Lukùs. Lukùs era mio figlio. Gatto, era, gatto. Biondo biondo come un normanno. Il nome gliel’ho dato io, di ritorno da Exarchia. Prima notte di scontri. Tante barricate. Molotov, fioriere distrutte. E poi Lukùs. Lui è venuto. Noi lo volevamo mica. È venuto micio micio e ci ha detto “baf”. Ha detto. Moriva. Prendiamo lui e andiamo al periptero. Così si chiamano i chioschi di sigarette in Grecia. Latte fresco. Mai dare latte ai bambini di gatto. E quindi questo qui si chiamerà Lukùs, dico, e lei sorride e il mondo le si irradia attorno. Ha sempre dei melograni appesi vicino alle orecchie. Perle, perle, lo giuro davanti a Dio. Raggi. Ti vedo. Stupenda. Non altro.

Mi hai mai amato? Dimmelo. Hai visto me. Hai mai amato? Il dito te lo tagli? No. Unghie. Questo tagli. Il superfluo. Io ho pianto. Molto molto molto molte lontane notti sgualcite ho. Ha. Domani. Poi sai della tua fica? Bellissima. Amore, mai più rivista una cosa del genere. Tutte le lacrime della mia colpevolezza, rinchiuse fra le labbra gonfie della tua fica bagnata. Baciarla solo come una cosa che scivola. Tutto era, dunque, così finto? Ma io che t’ho fatto? Stupido, come una bambolina. Mi hai visto, bambolina? Io mi sono visto. Era qui la mia banalità. Tutta qui, come fai con uno storpio a cui concedi cose che egli non desidera. Il 31 ti ho tradita. Era Capodanno. Come ora. La rossa te la ricordi? Capelli rossi, come un confetto era. Anche il pelo giù, suppongo. Era per essere, e si ballava di Capodanno. Alla fine sai che fai? La prendi e te la baci. Tu non c’eri mica. Forse Milano. Dov'è che eri? Dove? Barbados? Lì stavi. Nel braccio di qualcuno. Di qualcuno nel braccio. Io braccio mica. Ho mica, tu m’hai svuotato, sai?

Al civico di viale Marche c’era una locanda, proprio una locanda. Hotel Lucia. L'insegna diceva 16 camere più una mansarda. No fridge. Caldo, caldo napoletano. E un cane che abbaia attaccato alla catena. Un motorino, poi. Nella stanza, nascosti, noi ci accostiamo disegnando abbracci cadenti come stelle. È bella questa forma particolare di vacuità. Sa di acino d'uva la sera di Natale. Alla fine, ripartiamo a fare l’amore. E la tedesca che mi scrive: “What the fuck?!?!”. Lì l’ho imparato. Bello. Una frase too aggressive. Fa brutto. Per le casse di legno, alla fine. Tutto per quello. E io glieli avrei dati pure, i soldi. Ma no. No, no no no, no possible. Ipse dixit.             W        h          en        y          o          u          r           b          rain     is         F          U          cK        ED            .

Up, all’americana.

Ogni cosa si descrive per l'esistenza del suo contrario. La logica suggerisce come il suono sia silenzio sottratto alla stabilità. E lei viaggiava dentro me come una freccia, lo dico senza vergogna. Trafigge il cielo e lo fa suo. Il mio cielo tutto suo. Lei. Dentro come una vendetta, come diceva mia madre da ragazzo, che la vita me l’avrebbe fatta pagare per tutto quello che facevo passare alle mie donne. Io all’epoca ridevo, perché è una cosa bella e potente quella di sentirsi libero dagli sfaceli della sorte. Però un po’ avevo paura che in fondo in fondo poi si scoprisse che aveva sempre avuto ragione lei, sin dall’inizio. Ad ogni modo continuavo ad andare in giro con le mani in tasca. Sempre curvo, sempre chino come sono sempre stato. Sai come a dire uno strafottente bello e pronto per la carneficina? Così ero io, un coglioncello tutto baldanzoso. Con la camicia a scacchi. M’avessi visto per la via non avresti scommesso che avrei compiuto i venti. Troppo stronzo, ti dico. Troppo stronzo eppure maledettamente bello come un dio morente. Un pascià nel suo harem. Tipo mille e una notte e la regina Sharazade. Bella Sharazade. Tutto per lei si sarebbe fatto, in cielo come in terra.

In questo limbo cianotico dove mi sono venuto a ritrovare, ogni respiro che compio è una sorta di balletto in sfregio alla decenza. Veramente, a vedermi bene, non si direbbe che sia tenuto a condurre una vita dignitosa neppure fra un qualche centinaio di anni. Una bestia è una bestia dappertutto. Se fossi venuto al mondo più piccolo, forse, magari mi sarei accontentato. Invece quattro chili e settecento grammi al settimo mese, cinquantatré centimetri, con una ferrea erezione e il sacco amniotico chiuso attorno al mio corpo mastodontico. Un bel portento. Le infermiere salivano e scendevano dagli altri reparti. Tutte con la bocca aperta. Il miracolato, mi chiamavano. E io già impallinavo complimenti sotto gli strati di grembiuli e reggipetti. Che meravigliosa materia da raccontare al mondo. Non ti pare? Lacustre e insalubre. L'hai sentita mai? L'hai? Acca.

Ancora? C’è che nel millenovecento novantaquattro bazzicavo alla ricerca di mio padre in un bar che era una specie di parcheggio per i moribondi. Vecchi raggrinziti come le palle di un bue morto. Tutti appesi alle carte in mano. Delle entità. Dei solipsismi.

Vado da Nando e gli domando dov’è che sta il mio padre santo. “Biliardo”, dice. C’ha la rogna al culo, questo stronzo, per mandarlo a chiamare un momentino solo? Che era per me, che si voleva mandarlo a chiamare? La mamma m’ha detto tutto. “Oh. Va da tuo padre – mi fa – starà di nuovo a giocare a carte. Digli che è pronto. Digli che è domenica”.

Ci poteva pure fare un salto Nando a dire a tutti i padri che era domenica, no? Che non c’hanno famiglie ’sti debosciati qui? Il mio, per giunta, alto come uno stecco. Biascicante e seborroico. Io anni trenta. Nei trenta, dico, nei trenta. Quando muore tutto. Anche le illusioni. E diventi uomo. Allora il cicaleccio continua nella bassa sala impiastricciata di fumo come la faccia di una puttana la notte. Sta in piedi il grande capo. Una stecca in mano per ogni uomo e un cazzo fra le gambe per ogni compare, con la più laida variazione di teste di cazzo possibili. Tutti pieni, riversi verso il basso, bacarozzellati e sfungati, a banana o a cetriolo. Vai a capire cosa c’ha un uomo appeso sotto la cintura. Margot dice che tutto passa dalle mani, che lo vedi bene come si giostra la faccenda con le dita lunghe. “Tu – mi fa – si vede da un chilometro che ce l'hai grande come un tubero". Belo, come belare. Mica male come complimento.

Ché me lo tocchi, mia bella patata? “Dopo – mi dice – anche in gola”. Mi piace la sua gola. È come una vasca idromassaggio ricoperta di varichina. Brucia anche i batteri latenti. Lo sa fare, il suo. Lascia anche che lo faccia prendendola per i capelli e delle volte quando ha finito sono pulito come se venissi fuori dalla doccia. A dodici anni ho preso una mia amica piena di voglie e l’ho portata nella cantina di una casa in costruzione. Era il terzo o quarto pompino del mondo. Prima nessuno si infilava i cazzi nel cavo orale. Stiamo lì con sua cugina che guarda per imparare i trucchi del mestiere. Di fronte uno di noi si infila la mano nel pacco e tasta qualcosa che gli ricorda un bischero. Dice che lui c’ha mica molto da fare, lì dentro. Poi Ramona, questa specie di bertuccia sciocca, agguanta un passero che stava sul camino e se lo infila fra le fauci, famelica come fosse scampata a un massacro.

Verso le tre, le quattro del pomeriggio avevo già chiuso il libro con un autentico disgusto. Napoleone non era buono a nulla. Il telefono, invece, è una grande invenzione del genere umano. Parli con un pezzo di plastica e il mondo ti risponde. Cos’è dio, al confronto di un telefono? Ho detto a tutti che sarei andato a cazzeggiare. È sempre un invito allettante, non fosse altro per tutto quello che ti può capitare lungo il cammino. Insomma la strada è stretta. Stiamo tutti e cinque rannicchiati come delle falene attorno a un faro. Sai, come una cosa mocciosa e putrescente. Il futuro della nostra razza a un passo dall’estinzione. Intoniamo canti che sono funebri e non sanno più di nulla. Era una chiaroveggenza, la nostra. Morte o vittoria tutte e due dello stesso peso specifico. Come inciampare rotolando giù per le scale. Nello scantinato un’aria fosca. E poi i cazzi appesi come ho detto prima. Solo il quinto è di troppo e si ravana da solo la nerchia. Fuma un pezzo di carbone che è quanto di meglio gli possa passare oggi per le mani. Ecco come nasce l’odio negli esseri umani. Quando una donna ti guarda e ti piscia in faccia. Io l’ho capito presto, che sarei morto di malaria. Avevo ragione. Ho sempre avuto ragione. Solo mia madre era in errore. Ma in buonafede.

Non m’ha saputo neanche spiegare cos’è che erano l’oppio, la religione e i popoli. È Marx? Le dico. No. “L’oppio è una droga molto brutta che usa la gente dei paesi poveri. Ci si uccidono. Mai provare a fare. Non fare. Non fare”.

Ma perché poi tutta questa probità? Scommetto che un numero imprecisato di persone è solito farsi ficcare qualcosa su per il culo anche dalle cugine, dalle mogli e dalle amanti di tutto il mondo. Uno sfintere. Sarebbe la migliore pubblicità possibile per questo genere di mondo.  Piffo, la scopa che ti incula. Saremo presto valutati in base al nostro tasso di partecipazione alla vita sociale. Forse potremo quotarci in borsa uno ad uno, vendere parti di noi che non ci servono più e scommettere sul deflagrare della prossima epidemia.  Potremmo salire e scendere nel mercato azionario, sposare gli interessi della finanza mondiale, farci impiantare dei microchip sotto le tempie, andare a vedere spettacoli dove un transessuale si traveste da uomo per appartarsi con il fratello pervertito della ragazza di sua sorella. Osservare tutto col binocolo. Commuoverci per cose lontane e ignorare ogni amarezza più prossima. Essere ridicoli nella supponenza di aver compreso qualcosa. Pensare che non ci sia più nessuna forma di profondità raggiungibile. Realizzare il sogno di ogni pubblicitario dichiarandoci pronti a rimescolare ogni concetto. Essere solo vita data in permuta per un po' di riconoscimento pubblico. Uomini e cani che ringhiano a balene sterili. Raptus di follia incendiaria. Mogli chine a compiangere la prole partita al fronte mentre chattano con marinai in rientro per il fine settimana. Falli di polistirene grandi quanto pterodattili lobotomizzati. Milioni di tragedie osservate con languida tranquillità da narcolettici. Strilloni, giullari di corte, militari armati nelle piazze e maschere antigas come regali di compleanno. Tresche domestiche, figli che sgozzano i genitori, branchi di ragazzini che inculano vecchi rincoglioniti dall'alcol. Suore incestuose. Dirette televisive condotte da colonie di scimmie malate di scabbia, sangue rappreso sui polsini di affaccendati uomini d'affari, colonne di fumo nella notte appena iniziata, elicotteri presi di mira da gente asserragliata su terrazze piene di fuochi pirotecnici. Cantine con musiche laide dove danzatrici del ventre si muovono simili a serpenti sputando veleni che rendono ciechi. Lucidi da scarpe trasformati in bombe artigianali. Argenterie. Artiglierie. Artigli. Arti e sogni alla mescalina. Nella vita che ho vissuto un tempo coltivavo simpatiche piantine che profumavano la stanza. Ora lucido le mie armi e mi sento più vivo di quanto non lo sia mai stato. L'inverno siberiano è un cuore che batte come un tamburo primitivo nei recessi della nostra giungla urbana. Ho un quarto d'ora per lasciare l'edificio. In strada la gente s'ammazza. Corro a vedere lo spettacolo.