DIESISChiara De Luca

Zavorra

DIESISChiara De Luca
Zavorra

Nell’esatta metà di ottobre arrivò finalmente la densa nebbia bianchissima che sognavo da giorni per girare la scena finale della favola di Lorelei al laghetto del Parco Urbano Bassani. Avevo atteso con ansia quel momento, ma adesso che era arrivato non sapevo decidermi a uscire di casa.

Telefonai a mia madre, le chiesi se le sembrasse una buona idea andare al parco quella mattina. Mia madre, che sapeva quanto la realizzazione del film mi stesse appassionando, mi consigliò di seguire l’istinto. Ma era proprio l’istinto a suggerirmi qualcosa che non riuscivo a decifrare.

Alla fine, dopo vari tentennamenti, mi decisi a uscire. Il parco era sicuramente fradicio della condensa di cui il cielo invisibile era imbevuto. Le tue zampette sarebbero sprofondate nel fango e avresti preso troppa acqua, troppo freddo per il tuo piccolo corpo. Perciò decisi di lasciarti a casa e di portare con me soltanto Eva, setter impermeabile alle intemperie e tuffatrice d’acqua stagnante.

Appena uscite di casa, iniziammo a correre per le strade, per lasciarci alle spalle la città prima possibile. Sulla soglia del parco ci fermammo, abbracciai Eva per trattenere la sua impazienza e mi voltai verso sinistra. Aguzzando lo sguardo, vidi un pescatore con indosso una cerata gialla fosforescente e in testa un berretto di lana nera calato sulla fronte. Era seduto su uno sgabello, con lo sguardo concentrato sul bianco, la lenza tesa verso l’acqua invisibile del canale che separa l’asfalto dal verde. Decisi che sarebbe stato lui l’attore protagonista della scena inaugurale. Filmai a lungo i suoi movimenti placidi e il silenzio bianco che lo circondava. Poi ci addentrammo nella nebbia. Eva era ansiosa di raggiungere il laghetto nel centro del parco, suo territorio di caccia incruenta per eccellenza, dove i pennuti si radunano più numerosi, in cerca d’acqua e di cibo.

Dopo aver filmato qualche scena perfetta come l’avevo a lungo sognata, mi avvicinai all’acqua del laghetto per riprendere quella finale, in cui Lorelei avrebbe dovuto camminare sul muretto di confine tra l’acqua e la terra, stagliandosi sul manto bianco che aveva cancellato la notte.

Sistemai il cavalletto, mi tolsi le scarpe, indietreggiai di qualche passo nell’erba, per studiare bene la visuale. Nel mentre Eva urtò il cavalletto, facendolo cadere verso l’acqua. Io mi lanciai per afferrarlo, ma lo vidi scivolare dal muretto nell’acqua, portando con sé la mia Canon, detta Canny, il nostro occhio di Dio. Sporgendomi dal muretto, riuscii ad afferrare una delle tre gambe del cavalletto e la tirai con forza. Mentre la testa del cavalletto stava per riaffiorare dall’acqua sentii che all’improvviso diventava leggera, troppo leggera. Il corpo macchina si era staccato dal supporto ed era colato a picco nell’acqua. Senza troppo pensarci, mi tuffai per cercare di recuperarlo prima che toccasse il fondo. Lorelei indossava una gonna di velluto spesso, che nel giro di pochi secondi divenne di pietra, poi di piombo. L’acqua mi stava trascinando con sé, diventavo sempre più pesante. Facevo fatica a restare a galla. Chiamai a raccolta tutte le mie forze, piroettai su me stessa, lasciando la macchina al suo destino. Con qualche bracciata raggiunsi il muretto e mi aggrappai alla superficie scabra.

Il mio corpo era un sacco enorme che mi trascinava con sé, ma io restavo aggrappata al muretto. L’acqua era gelida, la nebbia un muro che non lasciava intravedere nessuno. Eva annusava tranquilla l’erba sulla riva. Credo abbia pensato che volessi soltanto fare un tuffo. Forse perché stavo in silenzio, un perfetto silenzio di nebbia. Lei non conosce la rassegnazione.

In quel momento fui sollevata al pensiero di non averti portata con me. Sono certa che non saresti rimasta sulla riva, ma avresti cercato di raggiungermi con tutto il calore del tuo minuscolo corpo, come cercasti di raggiungere Eva la sera che cadde nel laghetto ai Giardini Margherita a Bologna. E allora sarebbe stata la fine. La salvezza ciondola sempre dal filo fragile di una coincidenza.

Mi voltai verso l’acqua: era scura, mi sembrava che avesse inghiottito ogni cosa. Mi sembrava che non ci volesse niente a lasciarsi andare. Ero stanca.

La nebbia è la solitudine che condensa l’acqua degli sguardi, gelida come l’abbandono di quell’anno che li ha conclusi tutti e caparbia come la ricordavo dall’infanzia, distante come il sorriso che ti rifugia dalla routine delle domande che chiamano disperate una mancata risposta.

Il bianco abbraccio era così forte e così vuoto da farmi pensare che mi sarebbe gravato addosso per sempre e che non avrebbe mai più consentito alla luce di cantare. Ritracciava tutto il raggio dello sguardo, mi entrava nel cuore inzuppando memorie, si prendeva tutto nel suo candore lurido come la speranza, facendo del mondo il requiem degli spettri che non lasciano le mani all’impazienza.

Poi all’improvviso tutto fu di nuovo nel raggio del mio sguardo. Mi accorsi che il parco era stato eiettato dal ventre vorace dell’inverno, i colori tenui erano bocci di freddo che si schiudevano alla luce sempre iniziale della paura di nascere. Dal nulla riemerse anche lui, Padre Albero altero, con i rami protesi verso l’alto, fiero del suo resistere al buio, inattaccabile nel centro. Mi vidi in basso ad ammirare la costanza delle radici che tengono il volo senza franarne lo slancio, la bellezza feroce delle braccia che reggono con grazia il cielo. Guardai meglio: gli occhi aderivano al legno, lo sguardo si arrampicava inverso al fondo della vita, fino ai piedi dello stacco. Padre Albero si protendeva verso il basso, lievemente, senza minacciare di cadere, chiamava e chiamava a non svanire. Tutto il silenzio che avevo addosso era un verso senza direzione, il canto un grido che aveva inghiottito il suo clamore. La luce impossibile dell’alba mi riportò alla mente la tenacia idiota di vivere quando è un ricordo così distante da sembrare impossibile.

“Pensi che a qualcuno importerebbe se ti ammazzassi?” Mi aveva detto mia madre una sera d’inverno, mirando con lucida disperazione al centro del petto. Il rinculo della risposta aveva spezzato tutte le catene che tenevano il mio corpo a stento insieme. Non è per niente facile riconoscersi, accettare di essere fuori di galera. “Pensa soltanto a vivere”. Non è per niente facile scoprirsi furiosamente liberi di esserlo per sempre senza orizzonte, nel bisogno assente non aspettarsi, perché tutto si può dal non avere più niente da perdere. Dal non avere mai davvero avuto qualcosa da perdere. La strada per l’atarassia passa per la disintegrazione.

Restai ancora a lungo appesa al muretto, con quel mio corpo di piombo immerso nell’acqua buia. Provai più volte a risalire, mi graffiai a sangue le mani, i gomiti, le gambe, scivolavo sempre. Avvertivo una sorda rassegnazione, assieme a una segreta, scalza speranza, consegnata al battito del tuo piccolo cuore, all’immagine di me che il sole riflette come un insetto intrappolato al sicuro nell’ambra dei tuoi occhi. Non potevo uscirne.

Dopo qualche minuto, vidi emergere dalla nebbia una donna con una giacca a vento dai colori vivaci. Di fianco a lei trottava un cane nero. Mi sembrò che mi avesse vista: si era fermata proprio di fronte a me in linea d’aria, nel centro del sentiero che s’insinuava tra l’erba gelata del mattino. La chiamai e richiamai, a voce di volta in volta più alta. Mi chiedevo perché non si avvicinasse. Cominciai a temere che mi avrebbe abbandonata anche lei. Invece la donna mosse a sorpresa qualche passo nella mia direzione. La chiamai ancora, agitando con violenza un braccio per scostare il velo pesante della nebbia. Con l’altro braccio continuavo a tenermi aggrappata al muretto. Lei affrettò il passo e mi raggiunse. Si scusò di avere esitato, mi spiegò che aveva assistito a tutta la scena da lontano e aveva creduto che stessi ancora filmando. Nel mentre mi tese una mano, cui mi aggrappai con entrambe le mie per risalire il muretto. La forza di quella donna minuta mi sorprese. Insieme sollevammo una cosa di marmo.

Capelli rossi, occhiali colorati, azzurri, se non ricordo male, giacca rossa, un volto da angelo o da bambina e un incendio al posto del sorriso. Lei è Tiziana.

Gonna nera di velluto inzuppata, piedi scalzi, gambe e braccia sbucciate, semicongelata nella nebbia, le confessai di essere a piedi e sola con un cane. Senza pensarci un istante, Tiziana si offrì di riaccompagnarci a casa in auto.

Durante il viaggio verso casa, l’auto puzzava d’alghe e di palude. Ma noi ridevamo più forte del traffico che si risvegliava nel mattino.

Premendo la fronte contro il vetro appannato del finestrino, pensai che incontrare un essere umano è una grazia così rara che bisogna correre rischi enormi e pagare un prezzo altissimo perché possa avvenire.

In piedi sulla sponda del laghetto, avevo visto cadere nell’acqua il mio terzo occhio, la mia compagna, la mia salvezza. Durante il viaggio di ritorno mi resi conto che alla fine era soltanto uno strumento.

Arrivata a casa, tu eri già dietro la porta: piegata su te stessa come un gambero, ti davi codate sul muso col pennacchio biondo da bersagliere. Sulla soglia mi perquisisti da capo a piedi con il tartufo, vibrante a quell’odore di alghe e di palude.

Finita l’ispezione, mi precipitai sopra coperta per tuffarmi sotto la doccia calda. Amo l’acqua, ma non l’acqua gelida e buia.

Più tardi, distesa sul divano, intontita e dolorante, mentre ascoltavo il tuo corpicino caldo acciambellato sulla mia pancia, mi sentii come da bambina il giorno del mio compleanno, quando non sapevo tenermi la strepitosa notizia della mia nascita, e dovevo condividerla con tutto il mondo del mio quartiere. Quando chiamai mia madre per raccontarle l’accaduto, lei si spaventò, tanto che quasi si scordò di darmi della pazza. Nel salutarmi, ritrovò la sua proverbiale ironia e mi disse: “Spero di non darti altre idee malsane ma… Scommetto che hai pensato che sarebbe stato grandioso riprendere la scena per la tua favola…”. Scommessa vinta. La realtà è qualcosa di molto più impossibile delle favole.