Monica Pezzella

Ologramma

Monica Pezzella
Ologramma

L’infinito ologramma di Maria Gabriella Mariani

un romanzo da rilanciare

«L’ho intitolato “IO”, non sapendo come spiegarlo alla cartella. E a me stessa, ovviamente»

Inizia così Ologramma – sette vite per non morire di Maria Gabriella Mariani.

Difficile, in effetti, spiegare a un documento digitale – o a un foglio di carta, non fa differenza – un’urgenza di scrivere che non trova più motivazioni esterne, come accadeva in passato, ma è adesso un dolore che ha “superato le mura di cinta” ed è entrato dentro chi scrive, terminato l’assedio ha conquistato il corpo fino a identificarsi con esso, e risulta ormai indecifrabile e, forse ancor più, inesprimibile; la persona, che è ormai lei stessa quel male che la spinge a scrivere, ha perso i complementi oggetto; la parola si vanifica, nel dover spiegare sé stessa.

Questo “Io” […] franto, diviso, spezzato, dissociato” che non si appartiene più non ha altra scelta, per esprimersi, se non quella di espropriarsi. Scrivere una storia; la storia di un altro o di un’altra, la storia di chiunque altro – “mettiamola così” dice l’autrice – perché una storia è un mezzo non un fine; e allora, va bene, espropriamoci: raccontiamo (o forse… raccontiamoci) la storia di un chiunque qualsiasi, purché quest’Io possa guardarsi, ritrovare i complementi e dirsi.  

A noi lettori a questo punto, se fosse così semplice, non resterebbe che dire: leggiamola, questa storia di chissà chi; anzi, le storie di uomini e donne il cui nome talvolta non è che una lettera puntata, la cui vita è in bilico tra il quotidiano e l’ideale, il cui amore è tanto materiale quanto etereo, la cui mente è assediata, ciascuna a suo (?) modo, dall’abulia che annichilisce il corpo (si chiama, è tristemente noto almeno a chi c’è passato, somatizzazione) e la mente al cospetto dell’idea di morte e della non-idea del nulla.

 

“A proposito: non mi parli mai dei tuoi”.

“Infatti. E può bastare questo. Di ritorno c’è stato un

inconveniente, sai”.

“Quale?”.

“Veramente già all’andata, ma in forma minore”.

“Mi dici di che inconveniente si tratta?”.

“All’andata e poi al ritorno, durante l’atterraggio…”.

“Cosa?”.

“Una specie di chiodo che mi si conficcava nell’orecchio. Soprattutto quello destro”.

“Beh, si otturano le orecchie”.

“Lo so. Ma non è stata la stessa cosa. Un dolore lancinante, soprattutto al ritorno. Mi è durato per ore. Oltre al fatto che non sentivo niente”.

“Può capitare. Comunque fatti vedere”.

“Cercavo di ingoiare saliva per sturarmi quel maledetto orecchio, ma non ci riuscivo. E continuava a farmi male”.

“Poi si è risolto?”.

“Più o meno…”.

“Vuol dire che sei ancora sordo?”.

“No. Vuol dire che di notte mi sono svegliato senza respiro. E non riuscivo ad ingoiare. Sputavo la saliva nel lavandino. Ho provato a farmi una camomilla, ma non riuscivo ad ingoiare. E neanche a respirare. E anche se mi è passato ho da allora la sensazione che per riuscire a mandare giù qualcosa c’è bisogno che prenda la rincorsa. Come se la gola stesse alla rovescia, atrofizzata, e in questa tensione mi sembra che anche il palato e la lingua siano atrofizzati. Oppure altre volte mi sembra che la lingua sia alla rovescia e sia inghiottita in giù. Mi chiedo dove si deve mettere la lingua perché non si muova. Mi chiedo dove la tenessi prima, quando non provavo queste sensazioni e non pensavo a dove mettere la lingua di notte e a quante volte ingoiavo, e se la gola si chiudeva come una tenaglia oppure si apriva a precipizio come una voragine”.

 

Ma… Ferma. C’è un problema.

Il romanzo in questione, alla fin fine e non certo a caso, ha assunto il titolo di Ologramma, quasi l’avesse fagocitato e se lo fosse affibbiato da solo. La battaglia per la riconquista, l’azione oserei dire bellica della scrittura condotta attraverso un punto di vista che si autodefinisce altrui (un’impresa impossibile, concorderete; oggettivamente, drasticamente impossibile) si trasforma in una sequenza ininterrotta di voci – i “personaggi” (che orrenda parola, in questo caso specialmente) – che, proprio come l’autrice, cercano di salvarsi e recuperarsi raccontandosi ciascuno attraverso lo sguardo di un “chiunque altro”: un ologramma, appunto; un oggetto, sia esso grafico, acustico, ecc. (l’autrice è musicista e compositrice, anche questo non è un caso, onde e fasci e frequenze li conosce bene) si frange – ricordate quell’ “Io franto”? – a seconda del punto di vista, in un gioco di specchi in cui non solo la differenza tra prospettive, realtà, immaginazione, finzione è ormai indecifrabile per tutti – lettore compreso – ma è diventata un granitico dato di fatto: questo “chiunque altro” attraverso i cui occhi l’Io franto pretendeva di guardarsi e la cui immagine appariva come realmente presente, ahimè, ahinoi, non è e mai è stato altro che un “sé stesso”.

Alla fine infinita, indeterminabile, incollocabile di questo ologramma a catena si è poi raccontato, quest’Io?

Per forza. Non poteva essere altrimenti. Eppure, ciononostante, mi viene da pensare che non per questo smetterà mai di cercarsi.

 

“Cerco qualcuno”. Se ne stava tutto il giorno seduta

sul suo divano, all’occorrenza letto, poltrona su cui dormire, scrivere,

rispondere al telefono, soprattutto vegliare.

“Chi?”. René, la buona amica, una delle poche che la conoscesse fino in fondo

 e che fosse disponibile all’occorrenza.

“Non so. Qualcuno, qualcuno con cui e per cui fare ordine”.

“Dovresti cominciare dalla dispensa. Poi i pensili della cucina. Poi…”.

“Non intendo quel genere di ordine”.

“Dovresti chiamare qualcuno”. I limiti di René erano

proporzionati alla sua abnegazione nei confronti di Carmen.

“Liliana ha una nipote malata: mi piacerebbe comprarle un vestito nuovo.

Vorrei organizzare una festa ed invitare tanta gente. Chissà quanta gente ha ancora bisogno di me”. Carmen guardava avanti a sé mentre René si

destreggiava sapientemente tra gli stipi della cucina attigua.

“Hai provato a chiamare Paolo?”.

“E poi c’è Lucia, vedova, con una famiglia a carico: il figlio non lavora!”.

“È possibile che quella perla di ragazzo non senta il

bisogno di vederti?”.

“Lascia perdere quella perla. Ci sono perle di tutti i colori. Anche quelle nere sono preziose”.

 

Il romanzo di Maria Gabriella Mariani, edito da Guida editori nel 2019, merita di essere recuperato. Deve essere recuperato, rilanciato. Mi azzardo a dire che merita una nuova e più appropriata collocazione editoriale, e la ragione per cui mi azzardo a dirlo è che questo inconsueto, terribilmente sincero, disarmante Ologramma in “sette vite” merita di essere letto. Procuratevelo, lo si trova ancora facilmente. Intanto leggiamolo e poi, quando sarà, vediamo un po’ – e qui mi rivolgo agli editori – di collocarlo dov’è giusto che stia.

 

Gli occhi di Paolo, due begli occhi neri, oh, chi può dimenticare

quegli occhi grandi, così imploranti; sembravano sempre

sul punto di affondare in un mare di lacrime”.

“Se volessi potresti rintracciarlo”.

“Certo che potrei, ma non voglio. L’ultima volta che

ci siamo sentiti gli dissi che soffro di insonnia, che spesso

ho delle crisi di apnea, che ho paura di dormire perché

ho paura di morire”.

“E lui?”.

Riguardati. Questo mi ha detto. Ha aggiunto anche

che mi consigliava di non muovermi. Invece mi sono mossa: sono partita, sono tornata e poi ripartita. Lo chiamai per comunicargli che ero partita”.

“E lui?”.

Ah! Questo mi ha risposto. Gli dissi che volevo organizzare una riunione a casa con i vecchi amici, in occasione del suo compleanno, come ai vecchi tempi”.

“E lui?”.

Non credo che potrò esserci. Questo mi ha risposto. Allora gli ho mandato dei soldi, visto che non ci sarebbe stato”.

“E lui?”.

“Me ne ha chiesto spiegazione. Mi sono sentita rimproverata”.

René con il cencio in mano e gli occhi di fuoco: “Li avessi dati a me ti avrei organizzato una festa con tutti i crismi!!!”.

“Gli ho detto che se non li voleva poteva restituirmeli”.

“E lui?”.

“Lascia perdere cosa ha detto lui. Cerco qualcuno,

René, qualcuno che abbia bisogno di me”.