Enrica

Enrica

Caro Filippo, come promesso, eccomi qui a scrivere la mia vita. Che strana sensazione: scrivere la vita, inciderla nelle parole e in una forma, una sola, per sempre, sottraendo così le nostre memorie ai furti del tempo. Io ho dovuto ricordare il mio passato molte volte. Tutte le volte che il mio presente è diventato un vicolo cieco sono stata costretta a tornare indietro e chiedermi quale fosse la strada giusta da imboccare per procedere verso il futuro.

Ti stupirà, forse, la nitidezza con cui ricordo alcuni episodi dell'infanzia, sono frammenti della mia vita congelati da domande sospese, a cui non ho ancora trovato risposta.

La mia storia comincia da mio padre che voleva fare di me un vero uomo, ma niente a che vedere con il portare i pantaloni o fare il pompiere, era qualcosa da incidere nel carattere, incastonare nel cuore. Mio padre era un perfezionista, un bravo orologiaio, abituato a governare congegni minuscoli e fragili, come la vita di un bambino. Odiava le donne, di cui aveva sempre meritato il disprezzo. Sua madre prima, mia madre poi. Il tempo di conoscerne l’indole vile e arrogante e arrivava puntuale il rifiuto, la distanza. A certe occhiate di mia madre contro la sua volgarità oscena lo vedevo ripiegarsi, raggiungere un angolo della casa e, da lontano, guardare torvo la padrona che lo aveva scacciato, come un cane.

Non sono mai stata la sua bambina, tanto per cominciare. Ha esordito con l’attribuirmi una forza fisica diversa dalle mie sorelle: “Fai svitare a lei il tappo della bottiglia, guardate com’è forte… guardate come solleva Ornella…”

Dopo un po’ convinse tutti, anche me, che ero forte, forte come un uomo: un ometto. Questa parola cominciò a rotolare nei discorsi, tutti presero a giocarci, come un gatto che si ritrova per caso in un giardino e dopo poco nessuno ci fa più caso, diventa “il gatto”. “Il nostro gatto”. Io divenni “l’ometto”, “il loro ometto”.

Forte, giudizioso, prepotente, spavaldo... il congegno si arricchiva di particolari, fino a quando cominciò mirabilmente a funzionare. Tolsero anche il come: ero semplicemente l’ometto di casa. Zac, la trappola era scattata.

 

Avevo cinque anni quando ci siamo trasferiti la prima  di una quantità di volte. Tante che era diventato normale per me cambiare casa ogni anno. La necessità di tutti questi trasferimenti derivava dall’inquietudine di mio padre: si sentiva sempre sprecato, sottovalutato, era sempre in cerca di un luogo che ne riconoscesse la grandezza.

Le piccole città gli andavano strette, le sue creazioni meritavano palcoscenici più prestigiosi; le grandi città erano distratte da troppe proposte da comprendere veramente il suo peculiare talento. Bla bla bla, casa dopo casa, città dopo città.

Avevo otto anni quando mia madre si rifiutò di seguirlo nell’ennesima, incredibile occasione di veder riconosciuto il suo talento, di diventare famoso come orafo di fama nazionale. Lei era stufa di fare e disfare valigie e, per fermarsi definitivamente, assunse l’incarico di contabile all’albergo ristorante del nonno che ci offrì anche di vivere con lui e la nonna: avevano una casa molto grande, c’era spazio per tutti.

Mio padre chiese e ottenne che almeno io partissi, non so cosa riuscì a inventarsi per convincere mia madre; forse lei mi lasciò andare perché credeva che presto saremmo tornati, magari entro la fine delle vacanze scolastiche. Anzi, il fatto di avere un posto in cui tornare avrebbe potuto accelerare la disfatta e la ritirata ormai consuete. Partimmo alla chiusura delle scuole. Era giugno.

 

La mia nuova casa era situata in un quartiere popolare; c’erano tanti piccoli palazzi, di massimo tre piani, uno addossato all’altro come a farsi ombra e, tutti assieme, erano una grossa macchia scura sulla faccia del sole, ridotto a una striscia di sbieco in quell’eterno crepuscolo. Ricordo il giallo screpolato dei muri e le persiane verdi. Ricordo i passi svelti delle donne con le borse tenute strette sotto un braccio, i loro sguardi furtivi, ricordo gli uomini, enormi, sul balcone, a fumare sigarette eterne. Non sorridevano mai. Trascorrevo gran parte del mio tempo a guardare le persone, a cercare di indovinare le loro storie, oppure immaginavo quei palazzi dipinti di fresco di un bel giallo vivo, con qualche palazzina in meno per permettere a una carezza di luce di scivolare giù dai tetti e precipitare dentro le finestre, raggiungere le stanze, ora segrete, di quelle donne, di quei bambini, di quegli uomini ombrosi ai cui sguardi mi nascondevo, dietro le tende appassite della mia casa ammobiliata: camera da letto, due lettini, armadio, un comodino. Cucina: tavolo di plastica, quattro sedie, pensili marroni, frigorifero bianco, piano cottura, due fuochi. Bagno. Ricordo un piccolo specchio poggiato sulla lavatrice: ovale, con lunghe gambe di ferro battuto che terminavano in riccioli aggraziati, come i capelli di una presentatrice che vedevo sempre in televisione. Dalla finestra dell’unica camera da letto vedevo i bambini giocare a pallone di pomeriggio. Erano quasi tutti maschi: urlavano, si picchiavano.

«Fingiti maschio, almeno ti faranno giocare a pallone» mi disse lui una sera. E poi un’altra e un’altra ancora: approfittava di ogni piccola fessura della mia solitudine per infilarci quella soluzione che, a forza di ripeterla, divenne innocente, innocua, possibile.

Decisi di provare. Mi feci tagliare i capelli da mio padre. “Corti”, gli dissi, capì.

Andammo a comprare pantaloncini e magliette. “Prendiamoli senza tutti quei fiocchetti”, propose.

Quel pomeriggio, ero sola in casa. Nuda, davanti allo specchio, cominciai a vestirmi: pantaloncini, canottiera. Mi serviva solo un nuovo sguardo da indossare. Provai e riprovai davanti allo specchio fino a quando qualcosa dentro di me si arrese e quella follia dilagò nel mio sguardo come un’alta marea: non ero più io. Scesi.

Mi fermai ai margini del campetto di calcio. La follia mi rese audace perché c’era una distanza enorme tra me e quello che stavo rappresentando, niente avrebbe potuto veramente raggiungermi e farmi male.

Il capo dei ragazzini si avvicinò.

«Posso giocare?» lo precedetti. Era spiazzato. Disse di sì solo per prendere tempo. Gli avevo rubato la scena. Chissà quale rituale era previsto per quelle occasioni. Entrai nel campetto, assieme al mio segreto. Ero un maschio: correvo, sudavo, sputavo. Maschio. Anche la voce si era scurita, come se all’improvviso qualcuno avesse abbassato la luce. Ero più luminosa fuori, scintillante di sudore e vento, di urla e adrenalina da competizione, e più scura dentro, in fuga da me stessa, rattrappita in un angolo del cuore. Spento.

Mio padre mi vedeva tornare a casa la sera, sporca di terra e sanguinante di ginocchia sbucciate o dolorante di spintoni e botte. Si faceva raccontare tutto, era avido di conoscere la mia vita da ragazzino. Ascoltava e mi guardava con quella strana luce negli occhi: non ho mai più dimenticato quello sguardo.

Quando mia madre ci telefonava io cercavo di parlarle il meno possibile, la sua sola presenza, la sua sola voce al telefono mi restituiva la misura di quella follia nella quale entravo e uscivo come da una porta sempre più pesante, più difficile da aprire e richiudere a mio piacimento.

Lui mi chiamava Enrico. Prima con una certa arguta insolenza, quasi oscena, sembrava dire, sordido: ”Sto scherzando… “ poi, via via, il suo piacere nel condurre quel gioco divenne un “non ne posso fare a meno” aggiunto in postilla a ogni “Enrico” sempre più convinto.

Poi più niente. Basta. Enrico. Senza più argini: marionetta e Mangiafuoco e tutto il resto tenuto rabbiosamente fuori dalla scena. Era finalmente il Dio di qualcuno. Era pieno di disprezzo, le ferite al suo orgoglio erano divenute orrende pustole infette che ne sfiguravano la mente, il cuore, in un delirio permanente di cui io ero l’ultimo urlo straziato.

 

Mia madre ci avvisava sempre prima di ogni sua visita. Allora io e lui, in silenzio, sistemavamo i miei vestiti da bambina nell’armadio: le gonne, le camicette. Ricordo quella con i bottoncini a forma di cuore e la gonna di jeans con gli strass colorati sui bordi delle tasche; anche le bambole ritornavano in bella mostra a sedere sul mio lettino. Rassettavamo, lo facevamo sommariamente e solo quando aspettavamo la visita di mia madre. Lo scatolone con l’altro me veniva lasciato, chiuso, sul balcone della cucina. Mia madre chiedeva sempre cosa fosse, perché non ci decidevamo a liberarcene, ma lui rispondeva che poteva sempre servire per il prossimo trasloco. Rideva. Sorridevano. Come di qualcosa compreso solo a metà.

Lei arrivava di solito il sabato pomeriggio e se ne ripartiva la domenica dopo pranzo: le mie sorelle, il lavoro dal nonno, la reclamavano. Il poco tempo trascorso con noi lo utilizzava per pulire, cucinare, non ne rimaneva per conoscere qualcuno del quartiere, per intuire cosa fosse la nostra vita lì.

 

Con l’inoltrarsi della stagione estiva il lavoro all’albergo aumentò e le visite di mia madre divennero più sporadiche.

Qualche volta andavamo noi da loro. Mio padre raccontava di grandi apprezzamenti ricevuti da chissà chi, di prossime aperture di un suo punto vendita e laboratorio. Era vero solo che la mattina usciva per “andare a lavorare”, così diceva, ma io non sapevo dove si recasse né cosa facesse.

Nessuno mi chiedeva niente, solo se mangiavo abbastanza e se fossi contenta di fare compagnia a mio padre in un momento così importante della sua vita. Nessuno mi chiedeva, per esempio, se mi sentissi al sicuro.

Quando mio padre al mattino usciva io andavo in spiaggia con i ragazzi del quartiere. Mi piaceva il mare. Andavamo in un posto soprannominato “La scogliera dei tuffi”. Era uno scoglio da cui quei bambini si slanciavano con una veemenza ingenua e sfrontata, corpi magri consegnati al vuoto, in un’ansia di vita, di potere e perfino di bellezza. Eravamo bambini soli e ognuno di noi urlava come poteva per incidere nel mondo la sua presenza. Lì, su quella scogliera, con gli spruzzi d’acqua a tintinnarmi sul viso, qualche volta sono stato felice. Ormai ero maschio ventiquattr’ore al giorno, come quando impari una lingua straniera perché sei andato a vivere in un’altra città. Dopo un po’ di tempo pensi e persino sogni in quella lingua. Io ero maschio. Per essere uguale a loro mi ero costruita un piccolo rigonfiamento di plastilina, lo attaccavo a uno slip stretto stretto, poi indossavo il costume da bagno. Non sapevo nemmeno cosa fosse, a me bastava essere come loro.

Lui, la sera, dopo cena, pretendeva d’insegnarmi cose da maschi. Per esempio a fare a pugni. Mi colpiva, mi provocava, se non reagivo colpiva più forte: «Non ti lascio segni, so come fare… difenditi, sei un vigliacco, forse? I vigliacchi sono destinati a prenderle per tutta la vita, che schifo… colpiscimi, fammi vedere chi comanda qui…».

Parlava. Lo vedevo sfinirsi di parole, soffocate, sussurrate, sibilate, oppure rabbiose, sguaiate, oscene. Parole, parole. Mi consegnò, mio padre, in quei tre mesi, una elefantiasi di suoni sgraziati, un berciare convulso, una tappezzeria di parole da sovrapporre alla realtà come pellicole ermetiche che finirono per aderire alla mia pelle, alla mia mente, alla mia volontà: mi convinsi che quella vita era l’unica che potessi vivere, in realtà ero solo confusa e terrorizzata da quell’uomo che mi sembrava così potente. Parole. Ho vissuto gran parte della mia vita impegnata a raschiare via la logorrea che in quei tre mesi mio padre mi aveva fatto scorrere addosso come cemento liquido, per murarmi con lui nella sua follia, incurante della sacralità del mio bozzolo e del mio futuro corpo di farfalla.

 

Il mio migliore amico della scogliera si chiamava Niccolò: aveva gli occhi verdi e una strana passione. Collezionava tappi di bottiglia. Un giorno mi portò a casa sua. I genitori erano al lavoro, gestivano un bar del quartiere. Mi mostrò la sua collezione; possedeva tante boccettine di vetro e vasetti di plastica. “Sono dello yogurt” mi spiegò. Le teneva raccolte in una scatola di cartone. Giocammo tutto il pomeriggio con i tappi. Niccolò aveva inventato tanti modi per utilizzarli, tanti giochi, aveva scritto tutto in un quaderno con la copertina rossa. Ogni gioco aveva un nome e sotto era descritto il suo procedimento. Ne inventai uno anch’io, quel pomeriggio. Il mio amico mi chiese di non fare parola con nessuno su quanto mi aveva rivelato. Io giurai e lui mi regalò un tappo di sughero su cui scrisse il suo nome. Non avevo mai posseduto niente di così prezioso.

Io amavo Niccolò, con tutto il mio confuso essere, come bambino: lui era mio amico e complice; come bambina: lui era Niccolò e il mio desiderio furioso di abbracciarlo.

Una sera tornai a casa un po’ più tardi del solito, avevo aiutato Niccolò al bar, avevamo asciugato una montagna di bicchieri.

Mio padre mi aspettava sulla porta di casa. Tremava. Gli stavo sfuggendo. Non poteva permetterselo.

Non dissi una parola. Nemmeno quando mi schiaffeggiò. Nemmeno quando mi perquisì. Nemmeno quando trovò il mio tappo e lo usò per chiudere la sua bottiglia di vino. Fu una scenata lunga. Quando mi ingiunse finalmente di andarmene a letto, mi lanciò l’ultima minaccia nella schiena: non mi avrebbe più permesso di uscire, saremmo rimasti entrambi chiusi lì fino a quando gli fosse piaciuto.

Quella notte, pensai a una cosa soltanto, come se fosse un fuoco vivo con cui tenere lontano le belve delle mie paure, ferme lì, davanti al mio letto pronte a sbranarmi. Rivolevo il mio tappo.

Quando lo sentii russare, nel lettino accanto al mio, mi alzai, lentamente; la luce nelle scale del palazzo di fronte diluiva il buio della notte. Ritornai in cucina: lo vidi. Lo estrassi pian piano, lo sciacquai sotto un rivolo d’acqua, lo asciugai strusciandolo sulle mie guance. Tornai a letto. Lo nascosi nella federa del cuscino, dopo averlo baciato.

 

Mia madre arrivò da noi dopo qualche giorno, all’improvviso: voleva farci una sorpresa, disse. Vedere la nostra casa e me stessa riflessa nel suo sguardo fu un doloroso risveglio.

Il sorriso di plastica muto delle mie bambole, ora che lo vedevo sbucare dalla scatola in cui lui ammassava tutti miei vestiti e giochi da bambina ogni volta che mia madre se ne andava, aveva qualcosa di sinistro, come la bocca spalancata di quello scatolone che sembrava potesse inghiottirmi da un momento all’altro.

Mi rifugiai nel mio lettino. Da lì la sentivo urlare contro la sporcizia in cui vivevamo, le bugie di mio padre circa i suoi successi lavorativi, (le bastò poco per farlo confessare). E poi c’era il contenuto misterioso di quello scatolone, lasciato senza la ormai presunta immunità di cui mio padre credeva di godere per i suoi misfatti: perché i miei vestiti e le mie bambole erano malamente riposti là dentro? Nessuna risposta. Il silenzio di mio padre frantumò ai miei occhi tutte le sue ragioni. “Pazzo bugiardo” gli ripeteva mia madre e io provai una vergogna profonda, perché avevo creduto a un mentitore, avevo fatto con la sua complicità delle cose terribili, era certo. Non sapevo ancora bene quali fossero i miei peccati, ma come avrei potuto raccontare a mia madre tutto quello che avevo vissuto in quei tre mesi? Avrebbe chiamato pazza e bugiarda anche me. Io avevo appena “perso” mio padre, non potevo perdere anche lei. Me ne stavo zitta, sotto le lenzuola. Sarebbe passato molto tempo prima che trovassi le parole per raccontarle l’accaduto, e in quel momento mia madre non insistette per sapere, non ce la fece a varcare quella soglia.

«Alzati, Enrica, torniamo a casa.» Era l’alba.

«E lui?»

«Papà ci raggiungerà appena possibile. Vieni. Il treno parte alle sette, dobbiamo sbrigarci.»

Mia madre fu rapida: valigie, taxi, stazione. Era così bella, alta, le caviglie sottili, gli occhi scuri scuri, magra in vita, un po’ più grossa sulle anche. Era una donna fiera, profumata di odori aspri e freschi. Quella mattina sembrava un animale ferito, aveva un’espressione che oggi so nominare: orrore, rimpianto. Alla bambina che ero sembrò un angelo vendicatore venuto a salvarla.

Partii. Mi illusi di poter lasciare lì Enrico, con Niccolò, con il mio tappo, di cui invece, ancora oggi, ho l’orma sulle guance e il sapore sulla bocca.

 

L’estate stava finendo. Nei pochi giorni che precedettero il mio rientro a scuola mia madre non mi lasciò mai. Andavamo a fare lunghe passeggiate, oppure ci recavamo in città a fare acquisti. Ogni sera, dopo cena, quando le mie sorelle erano già a letto, lei mi interrogava dolcemente, cercava di far cadere il discorso, con noncuranza, sull’argomento del periodo trascorso con mio padre. Mentivo. Chiedevo solo: “Tornerà? Dov’è adesso?”.

Mia madre una sera mi disse chiaramente che lui non sarebbe tornato, si erano separati. M’interrogò per l’ultima volta per accertarsi che non avessi subito violenza e poi sembrò tranquillizzarsi: non era successo niente, mio padre era solo un egoista, immaturo, da tenere lontano, ma fortunatamente non un mostro. Ecco. Non un mostro. Non ne parlammo più fino al giorno in cui, dopo un anno, venni a sapere, dalla mia sorella maggiore, che lui era malato. Forse sarebbe morto. Avevo nove anni.

Non morì. Anzi. Mia madre, una sera, di ritorno dal suo lavoro all’albergo del nonno, ci raccolse tutte attorno al tavolo del soggiorno e cominciò a parlare.

«Vostro padre ha bisogno di aiuto. È molto malato, non può lavorare, ora ha perso anche la casa, la casa della nonna: ve la ricordate? I fratelli hanno venduto tutto, avevano dei debiti e lui è rimasto praticamente per strada. Dobbiamo accoglierlo per qualche tempo da noi, fino a quando non riuscirà a sistemarsi definitivamente. Non voglio che la gente dica che siete figlie di un barbone. Però voi siete grandi e io non posso decidere da sola. Se non siete d’accordo la cosa non si farà.»

Parlò per prima Giuditta, la maggiore.

«Dove dormirà?»

«Nella camera degli ospiti.»

«Non è per sempre, vero?» chiese Ornella. Aveva un vestito blu con il colletto bianco, i capelli ricci, lunghi, gli occhi piccoli con le ciglia piegate, la bocca morbida e la pelle rosa da bambina. Ornella era la più piccola, aveva sette anni, solo sei quando lui se n’era andato, non se lo ricordava bene, per lei era poco più di uno sconosciuto.

Mia madre mi stava guardando. Non osava chiedere. Non osava non chiedere. Non dissi nulla. Ero rassegnata. Speravo solo di sentirle dire “ho scherzato… non è vero niente…” ma non lo fece.

La prima sera che cenò con noi, lui teneva la testa bassa, era molto dimagrito. Ne fui contenta, sembrava un altro; potei riposare un poco in quell'illusione ottica.

Il tempo riprese a scorrere dopo essere stato con il fiato sospeso, anche lui incredulo, come me, di rivedere quell’uomo seduto a cena con noi, come un padre qualunque alla fine di una giornata di lavoro. Riprese a scorrere, il tempo, incurante di noi, di lui, che se ne stava quasi sempre in camera sua, quella degli ospiti, e compariva come un’ombra inquietante, come un presagio di sciagura, a pranzo e a cena, per occupare un posto che non gli spettava.

La nonna all’improvviso morì. Silenziosamente, come aveva vissuto.

Dopo qualche mese la mamma pregò il nonno di prendere mio padre a lavorare con lui.

«Qualunque cosa, per tenerlo impegnato.»

«Spero di non pentirmene.»

«Un tempo ti piaceva, papà, me lo raccomandavi come marito» disse sferzante.

«Ho commesso un errore Olga, non ho saputo proteggere te, vorrei almeno proteggere le bambine.»

«Alle bambine penso io, tu levalo un po’ da dentro casa, dagli uno stipendio, ha una piccola pensione, guadagnando qualcosa potrebbe ridiventare autonomo e togliersi dai piedi. Definitivamente.»

Lo disse davanti a noi, incapace di controllarsi. Quel giorno, una rabbia rappresa e gelida precipitò sul suo volto, come un drappo nero staccatosi all’improvviso dalle quinte di un proscenio.

Provai un brivido profondo di gioia a sentire l’intensità di quell’odio condiviso.

 

Era marzo inoltrato quando se ne andò da casa nostra. “Si è sistemato in un piccolo appartamento nel centro storico, uno di quelli di fronte al viale alberato; sembrano tutti uguali. Lui sta al numero otto, stamattina gli ho portato l’ultimo pacco con le sue cose” avevo sentito dire a mia madre. Il nonno continuava ad aiutarlo, anche se lui non si presentava quasi mai al lavoro; la sua salute malferma esigeva il decoro silenzioso e caritatevole del nostro comportamento: era inattaccabile. Le nostre ragioni inspiegabili nulla avrebbero potuto contro la pia immagine del povero padre di famiglia malato e solo. Eravamo suoi ostaggi: la mamma, il nonno, le mie sorelle. Io.

La prima volta che lo vidi davanti alla scuola pensai che fosse un incontro casuale. Le mamme delle mie amiche lo salutavano, ci salutavano, avevano quasi sempre nello sguardo quella specie di dispiacere agrodolce: “Che cosa triste un padre separato e queste bambine con le valigie, i pari da me e i dispari da te, come delle multiproprietà godute a turno. Meno male che non è successo a noi, noi, siamo una famiglia unita, niente complicazioni…” Mi accompagnava per un pezzo di strada, in silenzio, non osava spingersi fino al nostro quartiere; saremmo dovuti passare davanti all’albergo del nonno, con il rischio che mia madre ci vedesse. Non so quali fossero gli accordi tra di loro, ma, a giudicare dalla sporadicità degli incontri ufficiali a casa nostra, con noi figlie, con mia madre sempre presente, credo che la mamma e il nonno lo avessero convinto a stare lontano. Non so con quali argomenti, denaro probabilmente, minacce di scandali, forse, ma quest’ultima eventualità mi sembra più remota; il giudizio degli altri era contenuto nel disprezzo compatto di mio padre per il resto del mondo: se ne infischiava. Lui viveva da solo, in un mondo inesistente, fuori dal quale scorgeva solo ombre.

L’unica sua ossessione reale ero io, voleva a tutti i costi che diventassi l’uomo che lui non era, non era stato, non sarebbe mai potuto essere. Credo che non rinunciò a questo sogno delirante e potente fino al giorno della sua morte, avvenuta due anni dopo quell’incontro davanti alla scuola. Doveva accadere ancora una cosa, di cui, assieme alle altre già accadute, non mi sarei liberata facilmente, nemmeno dopo la sua scomparsa.

 

Mancava qualche giorno al mio decimo compleanno, era maggio, come adesso. “Sei nata nel mese delle rose” diceva mia madre, trasmettendomi una sorta di sorellanza con questi fiori alteri. Protestavo un po’ dicendo che preferivo le margherite, ma ero una rosa: mi sembrava, allora, di non avere scelta. Quel giorno uscii da scuola contenta, sapevo che nel pomeriggio sarei andata con mia madre a scegliere il vestito da indossare alla mia festa di compleanno. Ma non sarebbe successo, non avrei mai festeggiato i miei dieci anni; in quel momento non lo sapevo.

Vedevo rose ovunque. Rosse, rosa, spuntavano all’improvviso dai roseti dei giardini delle ville, o emergevano a grappoli da cancelli arrugginiti di terre abbandonate; me la ricordo ancora quella bellezza arrampicata come una sentinella, a mantenere in vita la vita, anche in quei deserti appassiti.

Quel giorno camminavo spedita, diretta all’albergo del nonno. Era sabato, pranzavamo lì così la mamma poteva dedicarsi al lavoro, più intenso nel fine settimana, e allo stesso tempo tenerci con sé.

C’era un negozio di abbigliamento proprio alla fine del marciapiede, poi un semaforo, infine avrei svoltato a destra, proseguito per circa cento passi e sarei arrivata a destinazione: “Albergo Aldebaran”, il nonno era fissato con le stelle.

Mia nonna, prima di morire, gli aveva regalato un telescopio e un binocolo: bellissimi.

Nelle notti estive li portavamo in terrazza e il nonno diceva: «Accomodatevi, comincia lo spettacolo». Una alla volta, io e le mie sorelle, sbirciavamo il cielo. Con il binocolo guardavamo le stelle; non puoi sapere cosa appare agli occhi di un bambino quando guarda le stelle, è uno stupore primitivo, totale.

Il telescopio, ovviamente, era un oggetto sacro per mio nonno e a noi era permesso toccarlo solo in sua presenza.

La nonna gli mancava molto, si vedeva da tante piccole cose. Da quando lei se n’era andata mi sembrava che camminasse un po’ meno dritto, che le sue cravatte fossero un po’ meno perfette, che il suo sguardo fosse un po’ meno potente. Nonno Euplio ora sembrava una di quelle mie barchette di carta caracollanti, quelle con cui giocavo nella vasca da bagno con le mie sorelle, d’inverno, quando la nostalgia del mare e l’uggia della scuola diventavano intollerabili. “Nonno barchetta” lo chiamai dentro di me, e mi venne da ridere.

Quando lo vidi era già troppo tardi: per cambiare strada, per provare a nascondermi, per entrare in un negozio e aspettare che mi superasse, per attraversare in fretta e furia. Per… Non ebbi il tempo di fare nulla, solo un breve lampo in un istante parallelo al mio pensare: «Sono vestita da bambina…».

Mi passò davanti. Non mi vide. Era Niccolò, il mio migliore amico della scogliera. Lo avevo riconosciuto subito, non era cambiato molto.

Camminava accanto a un uomo, suo padre.

Li seguii. Li vidi entrare all’Aldebaran. Erano sulla soglia quando Niccolò si girò e mi notò: ero ferma sul marciapiede, qualche passo prima di lui. Sostenni il suo sguardo. Congelata dalla paura che mi riconoscesse non riuscivo a muovermi.

Il padre, già all’interno dell’albergo, lo chiamò invitandolo a entrare. Lui continuò a guardarmi, ne ero sicura: gli ricordavo qualcuno, eravamo stati amici, avevamo trascorso giornate intere assieme, in fondo era passato solo un anno e io avevo solo i capelli un po’ più lunghi, li avevo appena tagliati (sistemati, diceva la mamma) per il mio compleanno.

Ne ero sicura: il mio amico avrebbe potuto riconoscermi. Lo guardavo, avrei voluto correre ad abbracciarlo.

Niccolò continuò a fissarmi, attonito, fino a quando non si girò e scomparve oltre la porta d’ingresso dell’albergo.

 

M’incamminai lentamente. Arrivai alla fine del marciapiede. Appena svoltato l’angolo cominciai a correre. Non so per quanto tempo ho corso. Mi ritrovai seduta su una panchina senza memoria di quando, nel corso di quel naufragio, vi fossi approdata. La mia memoria non procedeva più in senso lineare con tutti gli eventi cronologicamente ordinati, ero precipitata in una macchina del tempo fuori controllo, ero lì ma ero ovunque, ero io ma ero anche altro, ero niente, in fondo, plastilina molle e informe.

Avevo bisogno di rileggere la mia vita tutta da capo, dovevo ritornare al punto in cui avevo perso il filo del mio discorso.

C’era una sola persona al mondo a cui potevo raccontare l’accaduto. Ci andai, scordando completamente tutto il resto: mia madre, mio nonno, le mie sorelle. Tutti da presenze amiche divennero estranei, lontani come le stelle di nonno Euplio, incapaci di schiarire con la loro luce il cammino che da quel momento ero costretta a compiere per sapere chi ero.

 

Lui non sembrava stupito. Gli raccontai del mio incontro immaginando che si spaventasse, che per un momento potesse condividere il mio terrore, gelido, di essere scoperti, che la mia famiglia… all’improvviso mi fu chiaro che non potevo più tornare all’albergo. E nemmeno a casa: come avrei spiegato che non volevo mettere più piede all’Aldebaran?

La sua risata scomposta sovrastò il rumore dei miei pensieri, lampi guizzanti di una tempesta che mi avvolgeva sempre più sguaiata. Come quella risata oscena.

«Rimarrai qui con me. Poi magari partiamo, sì, buona idea, non possiamo stare qua dentro chiusi come due topi. Sì, è deciso, tra qualche giorno partiremo, dammi il tempo di fare un piano e vedrai di cosa è capace tuo padre.»

Si alzò. Era meno vecchio all’improvviso. Mi guardò. La macchina del tempo con un sospiro si spense e mi lasciò lì, riagganciata a quel vagone, a quel treno da cui ero scesa con mia madre in un’alba fresca, in fuga da un deragliamento bellissimo: da un film cupo a una nuova storia sotto infinite stelle.

Ero di nuovo lì. Lo scatto della serratura mi avvertì che aveva chiuso la porta: contai tre mandate. Infilò la chiave nella tasca dei pantaloni e se ne andò a dormire nella piccola stanza attigua: un letto, un comò cadente, un armadio quasi vuoto. Si coricò vestito, dopo pochi minuti russava.

Quella notte fu lunga. Lui dormiva. Io ero seduta in cucina, su di un divanetto azzurro scurito dalla sporcizia, come una nuvola che promette pioggia. Non riuscivo a pensare o a sperare niente, non mi venne in mente mai di provare a fuggire: per andare dove? Non c’era nessun luogo al mondo, così mi sembrava, che potesse contenere me, noi.

Quella cosa esisteva solo mentre la vivevo, mentre lui proiettava su di me la sua follia come un sole malato, imprigionandomi nella sua ombra, poi, quando tentavo di esprimerla, mi si sbriciolava tra i denti. Ci avevo provato a raccontarlo a mia madre, ma non avevo trovato le parole.

Forse c’è un dio dei bambini che li guidò fino a me; arrivarono all’alba, mancava ancora qualche ora, una luce bianca si era appena posata guardinga sulle sedie spaiate della cucina, sull’orlo strappato della tovaglia, sui piatti sporchi sparsi ovunque. Era tutto così assordante, eppure l’unico suono udibile era il ticchettio solerte degli orologi, ce n’erano tre in quella cucina. Uno appeso al muro, un disco di legno con lancette appuntite come le guglie di una cattedrale; sul frigorifero bianco, inutilmente altero in quella povertà opalescente, c’era una sveglia triangolare, laccata di un bel rosso vivo con le lancette nere, rigide come soldati. E poi, abbandonato sotto il cuscino del divano su cui avevo passato quella notte insonne (era l’alba ormai), c’era un orologio rotondo, chiuso nella sua casetta di metallo. Lo presi e lo portai alla finestra per guardarlo meglio alla luce dell’aurora.

Loro stavano arrivando, inattesi, come evocati dalle brume sudate di quella notte.

Una fila di alberi sottili, con la chioma come le piume sul cappello di un’artista circense, ma più soavi, si snodava nella strada illuminata dai lampioni, uno per ogni albero. Sembrava una mostra notturna, una bellezza sconvolgente profanata da un ubriaco che stava vomitando appoggiato a un lampione.

L’orologio si aprì con un clic, docile. All’interno c’erano due cerchi con le lancette e i numeri di epoche diverse. In alto, racchiusa in un ovale perfetto, una farfalla. Lo appoggiai aperto sul davanzale, aprii la finestra piano piano. Mi sembrava che in quell’immagine fosse contenuta una risposta alle mie domande, ma ci sarebbe voluto del tempo perché riuscissi a interpretarne con chiarezza il significato.

Fu allora che sentii quei colpi alla porta. Erano arrivati.

Se veramente c’è un dio dei bambini, quello era il suo esercito. Mio padre in un niente fu davanti alla porta. La polizia continuava a intimargli di aprire, prima gentilmente poi sempre più perentoria, ma lui chiedeva un attimo ancora per vestirsi. In realtà quell’attimo gli serviva per nascondere me. Mi si avvicinò concitato, voleva afferrarmi per un braccio, ma da qualche parte del mio corpo uscì un urlo con una forza e una ragione sconosciuta, ancestrale. Sfondarono la porta ed entrarono.

 

Cosa accadde nei giorni seguenti? Ogni volta che provo a ricordare vedo solo gli avanzi, come di una preda divorata malamente, di quello che accadde, mentre sul resto scorgo solo i veli soffiati dalla memoria sull’innominabile della mia vita.

Mi portarono via.

Il volto marmoreo di mia madre congelato in uno spavento totale.

Le poliziotte sorridenti.

Le visite in ospedale.

Gli occhi pieni di lacrime di nonno Euplio.

Le domande... domande... infiniti punti interrogativi a trafugare la mia anima fino a svuotarla di tutti i suoi segreti.

“Come avete fatto a trovarmi…”

“Abbiamo provato…”

“Quando svolgiamo un’indagine interroghiamo tutti…”

“Volevamo solo chiedergli se ti avesse vista…”

“Abbiamo avuto fortuna…”

Le mie sorelle, così lontane nella loro innocenza.

Il trasloco.

“Ti porto via da qui”. Il ruggito sommesso di mia madre, nei miei capelli, dentro un abbraccio infinito.

La nuova vita, in una città lontana.

La morte di lui, un giorno, passata come l’ultima notizia, proprio alla fine del telegiornale.

 

****

 

Mi laureai in giurisprudenza a ventitré anni.

Sposai Ermanno a venticinque, dopo un breve fidanzamento. Lui era intenerito dalla mia goffaggine nel vestirmi, truccarmi, occuparmi della casa. Non poteva immaginare che per me fiorire come donna significava fare una scelta che, nella mia confusione, non avevo la forza di compiere. Non lo sapevo nemmeno io.

La prima volta che mi sentii male mi stavo arrampicando su una scala per pulire i vetri di casa. Quel capogiro aveva fatto pensare a una gravidanza, ma bambini non ne arrivarono mai, vennero solo altri capogiri e una stanchezza sempre più profonda. Ermanno mi toccava con gentilezza, mi cercava nel letto, la sera, con quella domanda muta nelle mani, nelle dita lunghe con le unghie ben curate.

Io ero sempre più distante, mio marito lo sentiva, per ritrovarmi cercava una strada entrando nel mio corpo rigido, lontano, che lo faceva ritrarre avvilito in un sonno solitario.

Divenni magrissima, mi tagliai i capelli fin sopra la nuca, mi si scurì il tono di voce. Ermanno era disorientato. Cominciai a usare il suo profumo, la sua biancheria intima. Un giorno mio marito mi trovò vestita con un suo doppio petto, giacca e cravatta, davanti allo specchio, delirante.

 

Dopo il mio primo ricovero sembravo rinata. Prendevo le medicine, andavo dallo psichiatra tre volte la settimana, mi ero iscritta a un corso d’inglese. Ermanno mi aveva regalato dei vestiti freschi, era estate. Uno era decorato con dei bei fiori rossi, un altro blu e un altro giallo con il colletto bianco. Quando mi guardavo allo specchio mi sembrava di vedere il disegno di un bambino. Qualche volta dimenticavo di prendere le medicine, tanto mi sentivo al sicuro.

Fino a quando smisi del tutto di prenderle.

Mi feci ricrescere i capelli, cominciai a truccarmi pesantemente e a indossare abiti sempre più provocanti. Avevo comprato e nascosto delle parrucche.

Di giorno me ne andavo per strada, lontano dal mio quartiere, nei locali, a caccia di un’umanità estranea, non importava quanto sordida purché disposta ad assistere alle mie prove d’identità.

La sera era sempre più difficile tornare da Ermanno e presentargli Enrica, la sua Enrica, che si sfilacciava come un maglione di lana, con il disegno originale cancellato.

Stavo sempre peggio. Ero sempre più confusa.

 

Al secondo ricovero mio marito se ne andò: mi lasciò la casa, un assegno mensile, ma non voleva più vedermi.

Mi sembrò un altro mondo quello che trovai fuori dall’ospedale e, soprattutto, in quel mondo, non c’era più Ermanno.

Lo cercai, volevo scusarmi, spiegargli, volevo che tornasse. Non riuscii mai più a parlare con lui, l’unica traccia di quell’amore era incisa nell’assegno mensile che, puntualmente, mi veniva versato.

Mia madre e le mie sorelle passavano a trovarmi. Chiacchieravamo un po', si assicuravano che prendessi le medicine. Ero avida di quelle presenze, dei loro racconti minimi, delle bollette che aumentavano, dei conti della scuola per i bambini, del cappellino nuovo costato una fortuna, della pila scarica dell’orologio in cucina.

Imparavo i loro gesti, le intonazioni e gli sguardi, il modo di camminare e di sorridere, di tendere la mano o di abbracciare. Volevo appartenergli, essere come loro: una donna.

Ermanno mi mancava dolorosamente, provavo vergogna per quello che di me aveva visto, mi sentivo in colpa per aver fatto fallire il nostro matrimonio, per il dolore che gli avevo procurato.

Tutti i giorni dispari andavo dallo psichiatra, ma prima passavo in biblioteca, mi piaceva quel luogo, lo chiamavo “Il pianeta delle farfalle” perché era silenzioso, abitato solo dai fruscii delle pagine girate, simili a lievi battiti di ali.

Avevo bisogno di quel silenzio, di quella solitudine; in realtà mi nascondevo, perché più di tutto, ogni giorno, temevo d’incontrare Ermanno con un’altra donna.

Quando accadde smisi di uscire.

Ero convinta che il mondo intero mi fosse ostile, mi additasse, mi sentivo ridicola, desideravo solo lasciarmi inghiottire da un silenzio assoluto, odiavo anche il suono delle mie lacrime. Mi chiusi in una solitudine ermetica, nella quale perfino mia madre riusciva a entrare raramente e solo per pochi minuti. All’improvviso, in quel silenzio, cominciai a sentire la voce di mio padre.

Mi diceva che io ero come lui, gli appartenevo, non c’era posto per me, per noi, nel mondo, nessuno avrebbe potuto capirmi e apprezzarmi: solo lui lo aveva fatto e avrebbe continuato a farlo, se solo glielo avessi permesso.

Non volevo stare con lui, avevo paura, come quando avevo otto anni.

Per sfuggire a quella voce che mi sembrava uscire dai muri, dal soffitto, dal pavimento, da qualunque superficie vuota, io urlavo, urlava la mia casa disordinata, il letto sempre disfatto, le pentole abbandonate alla rinfusa tra l’acquaio e il tavolo della cucina.

Ricoprivo le superfici vuote con tutto quanto mi riusciva di spargervi sopra: medicine, bicchieri, posate, vestiti, scarpe, libri, coperte, biglietti, fogli, scontrini, occhiali, cappelli, penne, sciarpe, foulard.

Affannosamente, ogni giorno, ogni giorno con un’urgenza più violenta, costruivo la mia barricata, e per farlo svuotavo scaffali, cassetti, armadi, mensole, il cesto dei panni, qualunque cosa, qualunque esile velo potesse attutire quella voce, renderne irriconoscibile il timbro, azzerarne l’altezza, affievolirne l’intensità.

Svuotavo la mia casa e rimettevo tutte le tessere del puzzle della mia esistenza in gioco.

 

Mia madre venne a vivere con me, divenne uno scudo tra me e il mondo, me e l’ennesimo ricovero. Decise infine di portarmi via da lì, vendette la nostra casa in città.

Tornammo al nostro paese, Solerìa, questa scheggia di mondo e, dopo aver affittato la grande casa dei nonni, cedette i locali dell’albergo, ormai chiuso, lasciatole in eredità dal mio nonno “Barchetta” che da due anni viveva tra le sue amate stelle. Con il denaro ricavato comprò una casa più piccola per me e per lei; avanzò una discreta somma di denaro, avevamo di che vivere per un po’ di tempo.

Lei mi nutriva, mi pettinava i capelli, mi lavava, mi dava le medicine. E, soprattutto, aspettava. Albeggiava, quella mattina, quando mi trovò fuori dalla porta di casa, in camicia da notte: spazzavo le foglie cadute sul vialetto.

«Enrica fa freddo, ti prego, torna dentro» mi esortò.

Rientrai, docile, placata.

Trascorremmo tutto il giorno e quello seguente e quello seguente ancora a riordinare, buttare, pulire.

Levigato, lucente divenne quello che era stato sordido e confuso.

Stavo sempre meglio. Mi cercai un lavoro e il primo che trovai lo accogliemmo con gioia.

Il tuo locale non era molto lontano da casa mia, ne uscivo ogni sera accompagnata dalla scia luminosa dello sguardo di mia madre.

Il resto lo conosci.

 

Enrica