PARTITUREDaniele Scalese

Cella 33

PARTITUREDaniele Scalese
Cella 33

«Hai mai pensato di lavorare in obitorio?» mi chiese Emilia.

«Qualcuno lo pensa?»

«La gente è strana. Hai paura degli ambienti chiusi?»

«Non lo so.» 

«E dei morti?»

«No. Come sono le notti qui?»

«Non cambia tra giorno e notte. La gente muore sempre. Seguimi bene, Enzo: ricevi il contatto telefonico del reparto medico in struttura; ti aggiorna dei nuovi arrivi. Ogni volta che ce n’è uno nuovo, devi recuperarlo col comando che collega computer e carrello. Se si blocca, lo sposti a mano. Con uscita si intende un morto da recuperare. Il corpo non scende finché non c’è la constatazione del medico. Se non c’è, tecnicamente hai ancora speranza di vivere.»

«È mai successo?»

«No. Nelle prime 24 ore, la salma resta in osservazione. Per farle visita si fa la richiesta all’accettazione. Dopo le 24 ore va in, ti ricordi?»

«Scadenza.»

«Bene. La salma finisce in una cella, a tre gradi, e non è più visibile fino al riconoscimento. Poi si passa al deposito. Se non ci sono problemi.»

«Che problemi?»

«Ti fa vedere Alberto. Fate il riconoscimento con l’autorità giudiziaria, la medicina legale e due familiari, in teoria dura dieci minuti ma le persone restano di più.»

«Perché?»

«Il dolore paralizza. E la prima volta che vedi morto qualcuno che hai sempre visto vivo è complicato, soprattutto per i neofiti.»

«Neofiti?»

«Quelli alla prima esperienza con la morte. Già dalla seconda sono più abituati. Magari qualcuno che ha perso prima la madre e poi il padre. Tu aspetti che si sfoghino. Se vuoi utilizzi anche qualche mi dispiace. Sai, di accompagnamento.»

«Mi dispiacerà.»

«Solo il primo mese. Si fanno tre visite prima della chiusura della bara. I riconoscimenti vengono fatti nella Sala Uno, Due e Tre. È la parte più emotiva all’inizio. Poi ti abitui.»

«A cosa?»

«Al dolore degli altri. Inizi domani, confermi?».

Iniziai poco dopo l’alba.

Il mio primo morto si chiamava Giulio Senna e si era strozzato con la linguetta di una Coca Cola Zero. Aveva 27 anni. Io e Alberto c’incontrammo in Sala Uno per prendere visione della salma. Un telo nero lasciava il viso scoperto. «Dopo anni a dannarti finisci su un vassoio nudo. Che bella traiettoria. Tu che facevi prima?» mi chiese.

«Archiviavo pratiche. Back office.»

«Qua fai la stessa cosa. Invece di archiviare pratiche, archivi vite. Vedila così: l’obitorio è il back office della vita.»

Anche Alberto diceva che alla morte ci si abitua. E aveva ragione.

Dopo poche settimane iniziavo a metabolizzare il momento del riconoscimento. Imparavo a prevedere la risposta degli altri alla morte. Intuivo le reazioni di un individuo davanti alla vista di un figlio, un fratello, un genitore. Quanto si sarebbe dilaniato. Quante volte avrebbe pronunciato il nome di chi aveva perduto. Riuscivo a schematizzare il dolore. Prevederne le dinamiche. Studiavo il profilo del nuovo arrivato. Cercavo informazioni riguardo l’estrazione sociale, il grado di istruzione e la professione. C’era un punteggio per ogni gesto indovinato: Alberto vinceva ma io stavo imparando. Avevo del potenziale. Inventai un passatempo tutto mio, ad Alberto piaceva parecchio. Dal reparto medico ricevevo la comunicazione di un nuovo nominativo; chiedevo di non essere informato sulla causa del decesso, che veniva inviata in maniera scritta; chiamavo Alberto; insieme, davamo uno sguardo alla salma e ciascuno di noi ipotizzava cosa fosse accaduto. Quel giorno avevo scambiato un morto da ictus con morto da trauma contusivo. M’ero fatto fregare dai lividi sul corpo. Ridemmo di questa cosa. In quel posto era come se mi dimenticassi della mia vita. Le mie preoccupazioni si dilatavano fino a disperdersi, sul pavimento, scivolavano sottoterra, come i morti. Una volta, dopo un turno, Alberto mi chiese cosa ci facessi lì. Me lo chiesi anch’io, finché lo capii. L’obitorio è un edificio usato per identificare i cadaveri. Io non sapevo chi ero. La mia non era una crisi di identità ma la sua ricerca. Era quello il luogo in cui dovevo essere. Quel luogo serviva a riconoscere me. Che non fossi morto era solo un dettaglio.

Glielo dissi e mi rispose che la differenza tra un vivo e un morto sta solo nel posizionamento al di sopra o al di sotto della terra. Quel venerdì, il corpo di un ragazzo bloccava il carrello. Lo sollevai dalle gambe ma non si muoveva, spinsi di scatto, lo sbilanciai. Il corpo nudo sbatté per terra. Si creò una pozza di sangue sul pavimento. Lo perdeva dallo stomaco. S’era accoltellato e la caduta aveva scucito i punti. Lo caricavo su. Sulla pelle si era formato un liquido oleoso. Emilia mi aveva spiegato che la colliquazione consiste nello scioglimento di parti solide in seguito a processi degenerativi. Mi venne fame. Rientrai nel pomeriggio e consumai la carne avanzata dalla sera prima. Finché fui costretto a rientrare per un’emergenza. Le voci raggiunsero l’obitorio. Le grida penetravano la stanza prima che potessero farlo i corpi. Come i lampi precedono i tuoni. Alberto arrivò coi vestiti macchiati di sangue. C’era stata un’esplosione al terzo piano di una palazzina in periferia, avevano perso la vita 41 persone come me. Non avevamo spazio a sufficienza per tutti. Alberto mi passava grossi sacchi neri da riempire di morti, adagiati sul pavimento in attesa di fare spazio nei gruppi al Meno Uno. L’odore della morte riempì subito i corridoi. Mi venne fame. Davamo spiegazioni caotiche a esterni che volevano sapere se tra quei 41 morti ci fosse qualcuno dei dispersi. Accompagnai Alberto al Meno Uno per liberare i vassoi e fare spazio ai corpi ancora integri.

Quella stessa notte, arrivò Giulia.

Non c’entrava con l’esplosione. S’era uccisa a 16 anni per amore.

Alberto la fissava in silenzio. Guardava i capelli neri e sciolti che cadevano sulle scapole. Le labbra chiuse, il seno già sviluppato, lo stomaco piatto. I primi peli incerti sul pube. Cercavo un telo per coprirla.

«Lascia» disse.

«Cosa?»

«Fammela guardare.»

Rosalba aveva dieci anni in più della sorella e spiava dal vetro. Era venuta da sola, i genitori erano già sistemati da anni in un centro di igiene mentale. Tutto quel peso muto doveva ricadere su di lei. La fissava in silenzio e il silenzio soffocava la stanza. Il telo copriva il corpo della sorella lasciando libero il volto. La sofferenza se ne era andata dal viso e l’aveva lasciata in pace. La morte l’aveva resa leggera. Aveva resistito così poco. Alberto continuava a guardare.

Mi accorsi che qualcosa non andava il pomeriggio successivo. La stanza di Alberto era chiusa. Eppure sapevo che c’era lì dentro. Era il rumore della televisione a dirmi che c’era lì dentro. Una scia di sangue si dilatava in più punti e, dalla sua stanza, si definiva lungo le scale.  Portava al Meno Uno. Portava da Emilia.

Lei si accorse di me. Mi mostrò un piccolo spazio, oltre il suo ufficio.

Un giardino.

S’estendeva per dieci metri davanti all’uscita secondaria. Vidi un solco nella terra. Un gatto randagio s’era spinto nel deposito. Fino alle celle. Il freddo aveva causato un’emorragia. Lo aveva seppellito lì. 

«Come ha fatto a entrare?» le domandai.

«La cella era aperta.»

«Quale?»

«La 33.»

«Chi c’è nella 33?»

«Giulia.»

Informai Alberto dell’accaduto qualche ora più tardi. «La 33 non mantiene la temperatura» gli dissi. M’accorsi che perdeva sangue dal labbro.

«Da che dipende?»

«Qualcuno la apre.»

«Per fare cosa?»

«Non lo so. Solo noi possiamo.»

Tirai fuori il corpo di Giulia, per drenarlo, chiesi ad Alberto di recuperare una coperta. «È morta, non serve» disse. Facemmo il possibile, poi salimmo insieme. Il monitor segnalò un nuovo malfunzionamento alla cella 33 intorno alle 22. Raggiunsi il Meno Uno. Sentivo l’odore dei morti. Poi quello di Alberto.

«Che fai qua?» mi chiese.

«Tu che fai?»

«Un giro.»

«Hai la bocca di sangue.»

«Mi sono tagliato.»

«Come?»

«Per il nervoso, forse.»

«La cella continua a dare problemi.»

Non rispose. Riprendemmo a lavorare, separatamente. Quando cercai Alberto, la stanza era chiusa, il televisore era acceso, il volume alto per nascondere qualcosa o qualcuno, per le scale sentivo solo i suoni dei movimenti miei, la cella 33 era aperta e vuota, e il corpo disteso su un vassoio.

Vidi le spalle di un uomo,

inginocchiato,

un corpo vivo incastrato a un corpo morto, e le mani che toccavano Giulia, l’uniforme dell’uomo prendeva possesso del buio, i contorni si delineavano e mostravano i capelli folti, le spalle robuste, la vita larga e una pistola allacciata alla cintura, sentivo un risucchio, la lingua sulla pelle, e la sentivo addosso a me, e io dovevo scappare e non c’erano più posti dove scappare, tornai indietro, lontano dai morti e lì tutti erano morti, lontano da Alberto, andai su e lui mi seguì, non s’accorse dei denti macchiati di rosso, degli occhi riempiti di nero, «dov’è che stavi?»

«Dove sto sempre.»

«E che stavi facendo?»

«Che può fare uno in obitorio?»

«Dimmi che stavi facendo.»

«Certe volte guardo i morti.»

«E che fai mentre li guardi.»

«Sto là. Poi chiudo gli occhi.»