Datemi un martello

Datemi un martello

Datemi un martello… disse a un operaio che lavorava ad una staccionata a testa bassa. Era certo che nessuno dei lavoratori si sarebbe permesso di chiedergli Che cosa ne vuoi fare?… e quel pensiero lo faceva sorridere di gusto, giacché le parole suonavano in testa al ritmo della canzone. E così, puntualmente, perdeva il filo del ricordo.

 

Facundo Alvarez per il suo compleanno avrebbe voluto un Nokia. In giro si diceva che la tecnologia avesse fatto passi da gigante e che ormai il telefono si faceva chiamare cellulare e oltre a raggiungere la persona direttamente interessata poteva creare persino messaggi di testo. Incredibile, pensava. Per il suo compleanno, ottantadue anni portati con dignità, Facundo avrebbe voluto un Nokia, anche se ai suoi figli non ne aveva mai parlato. Dopotutto Facundo era un nonno pacifico e taciturno, mai avrebbe espresso apertamente un suo desiderio. I figli, per parte, non avevano colto - o non volevano cogliere - i segnali che il padre disseminava già da un po’ di giorni. Il mio amico al bar ha uno strano gingillo all’orecchio e parla da solo; chissà quale diavoleria si sono inventati stavolta; quale sarà mai il prezzo di quell’affare di plastica; dove andremo a finire, e cose così.

Chi disprezza vuole e Facundo per il suo compleanno voleva un Nokia. Invece si ritrovò tra le gambe un golden retriever, di certo un gran bel cane ma non troppo sveglio e nemmeno troppo entusiasta di fare la sua conoscenza. Qualche scodinzolio giusto per rispetto, poi a cuccia sotto la sedia.

«Ma è vecchio?» chiese Facundo ai suoi due figli.

«Ha soltanto tre anni. Una buona occasione per muoverti di più e per sentirti meno solo».

«Come si chiama?».

«Non ha ancora un nome, è un trovatello. Devi darglielo tu» gli disse la figlia, carezzando la spalla del fratello.

Carini, i miei figli… pensò Facundo: una maniera elegante per lasciargli intendere che le loro visite sarebbero diminuite ancora, e che un cane era il giusto premio per i suoi giorni a venire. In verità non lo pensava davvero, la vecchiaia l’aveva preventivata per tempo. Certo non avrebbe mai immaginato di trovarsi al fianco un cane sciocco oltre a una badante, Adele, che già da cinque anni era buona solo a parlare di amenità varie e a trattarlo come un vecchio in fin di vita. Si dava il caso che lui fosse in grado di badare a sé stesso, e che andasse fiero delle sue flessioni mattutine; il che gli dava il permesso di trattare la badante con la dovuta e consueta sufficienza. Adele pareva invece entusiasta della sorpresa a quattro zampe. Tanto meglio: le avrebbe affidato volentieri la patata bollente.

Ines, sua moglie, era morta da cinque anni, e la mancanza lo aveva rabbonito. In tarda età alcuni uomini decidono, non proprio volontariamente, di diventare accondiscendenti a quasi tutto. Più che temperamento, deve trattarsi di una tecnica estrema di sopravvivenza, una tacita regola della natura, per cui all’abbandono delle forze corrisponde una resa incondizionata, un mettersi da parte per manifesta incapacità di partecipare alla guerra della vita. Ed è facile che l’arrendevolezza si confonda con la dolcezza.

Ma la guerra, quella vera, Facundo l’aveva conosciuta.

Thomas Kramer, classe 1910, tedesco di Germania. Era questo il suo vero nome. Era stato soldato delle SS, poco di più si sapeva di lui. Thomas Kramer non aveva commesso alcun crimine di guerra, faceva parte dei “buoni soldati”, come la Storia amava ricordarli, quelli che parteggiavano in segreto per la parte offesa. Almeno questo aveva raccontato alla sua famiglia, le poche volte in cui se ne era parlato.

Durante lo sterminio Facundo Alvarez, anzi, Thomas Kramer si era mostrato un uomo pressoché pacifico. Più che pacifico, disinteressato a quel che accadeva. Ai tempi aveva avuto modo di annoiarsi ricoprendo ruoli per lo più burocratici, talvolta alla guida di camionette o a guardia di armi e mezzi militari. Da sempre amava, anche in tal caso in segreto, l’Argentina. In quegli anni aveva imparato la lingua così bene da riuscire a nascondere quasi del tutto l’accento tedesco. Sapeva in cuor suo che l’amore celato per quel paese sarebbe stato la sua salvezza.

Facundo, anzi, Thomas Kramer, di rado aveva assistito ai crimini nazisti. Le occasioni in cui era successo, avrebbe detto di esserne rimasto sconvolto solo in parte. Somigliavano a una rappresentazione teatrale ben congegnata… raccontava alla famiglia incredula.

Thomas ne parlava con distacco trasognato, quasi a ricordare i bei tempi che belli non dovevano esser stati, ma che appartenevano alla sua età più vigorosa, trascorsa tra fiumi di alcol e memorie sempre più vaghe. Poi la mano della moglie Ines sulla sua, che stava a significare: Basta così… e le memorie, tanto ambigue quanto inquietanti, s’interrompevano, insieme al sonnellino pomeridiano.

 

Dovrò portarti fuori, immagino… bofonchiò al cane. Il cane, che ancora non aveva un nome, rispose con uno sbuffo; e parve avere un momento di necessaria vitalità, quella giusta per uscire fuori allo scoperto. Invece tornò ad ansimare lento e silenzioso, a guardare la stanza da letto che poco doveva entusiasmarlo.

«Fa’ fare pipì a cane!» urlò Adele dalla cucina, senza nascondere un comico rimprovero.

Che razza di regalo sei tu… e tutti e due, cane e padrone, parevano annoiati all’idea di attraversare il cortile di casa.

«Max! Schwartz! Gugo! Come diavolo ti dovrò chiamare? Avanti, prendi là!… Corri, su… guarda il bastone, hop! Ehi, cane!, corri a prenderlo e portamelo qui. Forza, diamoci una  mossa! Avanti…». Niente. Quel cane sembrava rassegnato, l’espressione svogliata rivolta al rametto, e di nuovo ad accucciarsi sull’erba. Forse gli avevano regalato un cane malato. Sì che era malato, non poteva essere altrimenti, nonostante le certificazioni del veterinario fossero incoraggianti.

«Sano come pesce!» strillò la badante dalla cucina, e aggiunse che proprio per questo avrebbe potuto chiamarlo Fish.

«Fish? Fish!… che bel nome» rispose Thomas canzonatorio. «Ti piace se ti chiamo Fish, cane stanco?… a me no. Ti chiamo cane… cane sciocco. Ti piace cane sciocco? O preferisci… cane cabròn? Propenderei per quest’ultimo. Cane cabròn. Ehi!, prendi la palla. Non ti piace la palla? Ho deciso: cane cabròn». E il cane gli rispose con un soffio, prima di accucciarsi di nuovo e far passare la giornata.

 

Thomas Kramer a volte si incantava a seguire i suoi pensieri. Quel preciso ricordo che, da quando Ines era morta, aveva preso a inferocirsi. Di tanto in tanto il ricordo tornava a bussare alla testa e portava con sé un lieve malessere alle tempie, che un tempo Thomas sapeva ben curare. Whisky, schnapps, birra, vino. Ma da anni aveva lasciato perdere l’alcol. Era riuscito a smettere senza l’aiuto di nessuno; si era affidato a un puro calcolo: nella vita aveva ingurgitato circa settanta tonnellate di alcol. C’era da andarne fieri, dopotutto. Un uomo, un solo uomo capace di gestire una tale quantità di veleni. Bravo Thomas mi complimento con te, cioè con me. Ma adesso possiamo piantarla… aveva riflettuto in un giorno piovoso, e aveva smesso per sempre.

Non era vero ciò che raccontava ai suoi figli. Thomas Kramer non era stato il soldato innocente che diceva di essere stato. Non solo perché non si era opposto allo sterminio; nemmeno perché la sua empatia nei confronti del genere umano, a quei tempi, era ridotta al minimo. Thomas Kramer, soldato delle SS con funzioni burocratiche, aveva commesso anch’egli un crimine di guerra.

Accadde in un pomeriggio freddo e confuso, tanti i soldati che andavano avanti e indietro tra le urla che scandivano il passo militare delle ore. Il suono ripetuto dei colpi da fucile: da qualche parte era stata compiuta l’ennesima esecuzione. Di forni e gas non se ne parlava ancora, e i plotoni erano al momento il modo più efficace per sterminare.

Nell’aria che si imputridiva di polvere da sparo e feci, soltanto un uomo era sopravvissuto alla fucilazione. E se ne stava inerme a guardare rassegnato il bordo della fossa.

Datemi un martello… disse a un operaio che lavorava ad una staccionata a testa bassa. Era certo che nessuno dei lavoratori si sarebbe permesso di chiedergli Che cosa ne vuoi fare?… e quel pensiero lo faceva sorridere di gusto, giacché le parole suonavano in testa al ritmo della canzone. E così, puntualmente, perdeva il filo del ricordo.

 

Solo una volta, dieci anni prima o giù di lì, a Thomas Kramer venne l'idea di dire la verità a sua moglie. Lo fece d’inverno, al caldo tepore delle coperte. Ines reagì con un mugolio sommesso per tenersi strette le parole e lo schifo, e lo fece portandosi la mano alla bocca. Quelle parole le tenne nascoste nello stomaco fino alla sua morte, un anno dopo la confessione.

Un tumore scoperto troppo tardi fu la diagnosi ufficiale. La verità era che sua moglie aveva deciso di andarsene. Aveva scelto di abbandonare quel marito che aveva conosciuto solo allora, tra le coperte calde.

Ines se ne andò insieme al suo sistema immunitario, portandosi dietro il segreto che tale doveva rimanere. I figli non dovevano sapere.

 

Thomas non dormiva quasi mai. Il sonno si faceva profondo solo nel pomeriggio. Una profondità che di rado andava oltre l’ora e mezza, e che era sufficiente a colmare la fatica della notte sempre più insonne.

Sei tu, Adele?… fece alla porta che si muoveva piano, accompagnata da un suono che nel dormiveglia non era riuscito a riconoscere. Ci mise un po’ per capire che il suo cane, cane cabròn, girava su sé stesso dietro la porta della camera, ticchettando le unghie sul pavimento. Il cane si decise a spingere l’uscio, ma non oltrepassò.

Thomas, nella stanza oscurata dalle serrande, vide il cane che lo osservava dalla porta schiusa. Non sembrava avere il solito aspetto arrendevole. Lo guardava senza lingua penzolante, senza ansimare, la coda immobile e appesa quasi a toccare terra. Fermo; un animale imbalsamato.

Vattene e lasciami dormire, cane cabròn… gli intimò senza severità. Il cane non obbedì. Il cane non mosse un muscolo. Il cane continuava a fissarlo.

Cane cabròn non ti piace, mi sa. Ti chiamerò… non ti chiamerò affatto. Io volevo un Nokia. Lo sai cos’è un Nokia?

Il cane non si mosse.

Lasciami dormire… per poco non lo pronunciò davvero. Thomas si schernì e guardò in alto, in cerca del prezioso sonno ormai distrutto. Lasciami in pace… sussurrò al soffitto. Solo allora il cane riprese a respirare e ad ansimare come stanco cane fa; e con la solita aria afflitta tornò a zampettare per il corridoio.

 

La giornata non era iniziata nel migliore dei modi. La notte prima, di ritorno a casa, Adele aveva avuto un incidente con l'auto. Niente di grave, ma il medico le aveva consigliato un ricovero di qualche giorno, e di badare ad anziani e bambini non se ne parlava proprio. I figli erano lontani, e Thomas era troppo orgoglioso per chiamarli. Di vicini ce n’erano pochi, e quei pochi erano pure scostanti. Insomma doveva cavarsela da solo.

Nessuna tragedia. Per poco meno di una settimana avrebbe fatto affidamento sulle blande nozioni di cucina che aveva imparato osservando Ines. E una passeggiata in più per fare la spesa non gli avrebbe fatto male. Piuttosto era quel cane, quel maledetto cane stanco che si metteva di traverso. Un regalo di compleanno che era stato una spina nel fianco.

Ci sono scatolette per cane, deve solo aprire una volta a giorno e lamentare meno pozibile… gli disse Adele al telefono di casa. Se solo avesse avuto quel Nokia, si sarebbe sentito libero di mandarla chissà dove, o lo avrebbe lasciato squillare a vuoto.

«Ti dà fastidio il suono del telefono, uhm?» fece al cane. Il cane lo guardava con la testa bassa e il fiato stanco. «Dicono che si può persino scegliere il suono dello squillo. Maledizione: io volevo un Nokia, non un impiastro come te».

Il cane si diresse verso la porta, era ora della passeggiata.

«Siamo solo io e te, questa è la dura realtà, perciò vediamo di metterci d’accordo: si esce due volte al giorno, soltanto due, fatti un calcolo tu e la tua vescica. E ascoltami bene: il pomeriggio, cane cabròn, cerca di farmi dormire o sono guai. Intesi?».

Il cane gli diede le spalle in attesa che la porta si aprisse.

«Allora: qua la zampa?».

Il cane menò un ennesimo sbuffo.

«La pallina e il bastone non ti servono, mi sembra di capire. Sei qui solo per cagare e pisciare».

Il cane accennò uno scodinzolio svogliato.

«Dove diavolo è il guinzaglio… andiamo».

 

Thomas non amava molto la televisione, ma in quelle ore sarebbe stata un’ottima amica. I figli, in coro con Adele, in genere gli dicevano di abbassare il volume, ché era diventato sordo. Non pensava affatto di essere sordo, più probabile che gli altri sussurrassero per non farsi sentire, invece di parlare ad alta voce come facevano una volta. La gente cambia, pensava. Ma adesso poteva tenere il volume come più gli piaceva e vedere gli incontri di boxe per  tutto il tempo che voleva.

Ma nonostante il volume fosse alto Thomas ebbe l'impressione, netta, di un rumore estraneo proveniente dal soggiorno. Abbassò il volume. Niente. A parte lo speacker che aizzava il pubblico inneggiando a un incontro di pugilato che stava per diventare un evento storico. Tornò al televisore, certo di immergersi tra pugni e sudore, quando lo sentì di nuovo.

Non c’erano dubbi: stavolta il rumore era chiaro e distinguibile. Era il cane.

Si lamentava. Guaiva, mugolava, ringhiava, forse. In quei suoni riconosceva un lamento più simile a quello di un essere umano. Quel ringhio, quel pianto ingolato gli arrivavano alla mente come un urlo sommesso, attutito da uno straccio o chissà che altro.

Si alzò di scatto dalla poltrona, per quel poco che gli consentivano le articolazioni. Accelerò il passo verso il salone, come se della sofferenza del cane potesse importargli qualcosa. E questo lo sorprese più di tutto.

«Cane cabròn, allora? Come butta?». Ma lui se ne stava tranquillo nella sua cuccia a concedergli uno sguardo svogliato, quasi a dire che poteva andare a stordirsi le orecchie da un’altra parte. Grazie.  

 

Datemi un martello… disse a un operaio che lavorava ad una staccionata a testa bassa. Era certo che nessuno dei lavoratori si sarebbe permesso di chiedergli Che cosa ne vuoi fare?... e quel pensiero lo faceva sorridere di gusto, giacché le parole suonavano in testa al ritmo della canzone. E così, puntualmente, perdeva il filo del ricordo.

Ma a volte, di rado, il ricordo tornava alla mente chiaro come fosse ieri, come se il guardiano nella sua testa avesse fatto sciopero, e le sue difese mentali risultassero del tutto inutili.

Ricordò tutti i particolari. Aveva saggiato il peso del martello da falegname. Il manico era quasi ghiacciato, era un inverno nevoso. L’arnese non poteva dirsi pesante, ma era lo stesso capace di inchiodare qualsiasi tipo di metallo nel legno.

La prima martellata finì dritta sulla spalla dell’uomo sopravvissuto alla fucilazione. L’uomo emise solo un lamento di sorpresa, ma non reagì. Thomas diede un altro colpo e stavolta gli finì dritto sulla testa. E un altro, e un altro fin quando non sentì il suono del cranio che si apriva in due. Sembrava piuttosto il rumore di una busta di plastica piena d’acqua che scoppiava; e il sangue sgorgava come una fontana. L’uomo sollevò la mano destra per parare le martellate, ma a Thomas sembrò voler dire: Va bene, ho capito, ti sei spiegato ma adesso basta, per favore. Basta.

No. Non bastava. Thomas non smise. Proprio non capiva come mai quell’uomo, vittima come altri di simili abusi, non reagisse a una tale violenza. La rabbia di Thomas non era rivolta alla presunta inferiorità etnica alla quale lui, in fondo, non aveva mai creduto. Thomas stava annientando la sua vita perché quell’uomo non sembrava essere in grado di difendere la propria, di vita. Il che per Thomas era incatalogabile. L’impossibilità di sistemare razionalmente l’arrendevolezza degli esseri umani aveva creato nella sua giovane mente un’energia  enorme  e trattenuta, un accumulo di reazioni chimiche incontrollate che all'improvviso, adesso, esplodeva. L’atto criminale non era, adesso, che un mero esercizio fisico, allenamento per il braccio: pensò che per qualche giorno i muscoli gli avrebbero fatto male.

Smise di martellare solo quando udì le risate alcoliche dei soldati, che con un applauso si complimentavano per il buon lavoro. L’uomo era crollato insieme agli altri nella fossa, con una poltiglia di sangue e membra al posto della testa. Thomas si fermò a pensare a quanto fiato gli ci era voluto per uccidere un essere umano.

 

La notte Thomas la passava con gli occhi sbarrati e un unico desiderio: dormire. Sperava che il pensiero della sua famiglia e del benessere conquistato, potesse in qualche modo dargli il giusto sonno. A poco a poco, minuto dopo minuto, sudori dopo sudori, tra le luci della notte e le vite notturne di chi come lui chissà perché non riusciva a trovar pace; a poco a poco riusciva, lui, sempre, a infilare la propria esistenza in un quadretto fantoccio, una cornice fasulla dove le cose avevano ancora un barlume di lucidità, una efficace sistemazione nella coscienza. Un’operazione che gli costava la veglia forzata, una guardia notturna in difesa della propria mente.

Quel cane era un animale strano, faceva sentire la sua presenza anche quando non c’era, anche quando il suo fare sommesso diventava oltremodo ingombrante e fastidioso. L’amico più fedele dell’uomo, che adesso rendeva l’uomo indesiderato, oggetto superfluo, essere vivente sacrificabile.

Quel cane, cane cabròn, che se ne stava dietro la porta della camera a spiare immobile ogni suo movimento. Sei un cane cabròn… sussurrò Thomas alla porta, e gli occhi dell’animale  erano appena appena luminosi nel buio del corridoio. Una statua con gli occhi fissi su di lui, mentre un basso ringhio faceva tremare l’oscurità.

Vattene cane, tornatene da dove sei venuto… ma il cane rimaneva lì, segugio senza indugio.

«Vattene, ho detto!» ma più alzava la voce, più il ringhio aumentava.

Accese la luce e il cane sembrò rabbonirsi passandosi la lingua da baffo a baffo come a scusarsi. Si stiracchiò e si accucciò davanti alla porta, pacifico e svogliato come al suo solito.

Non è il buio che ti dà fastidio… pensò Thomas. Non è questo buio che ci tormenta. Non è la notte che ci infastidisce.

E si addormentò soltanto alle prime luci dell’alba.

 

«Oggi non mangerai croccantini ma pranzerai con quello che cucino io. Sei contento, cabròn?».

Il cane, al suo solito, non reagì. Dopotutto i profumi del pranzo non sembravano particolarmente invitanti nemmeno a Thomas. «La tovaglia è quella delle occasioni speciali» continuò a bofonchiare. «Dovrò solo convincerti a salire sulla sedia».

Non fu affatto difficile. All’improvviso il cane si sistemò spontaneamente, a capotavola. Con la sua abituale aria stanca, si guardava intorno senza alcuna traccia di vitalità canina.

«Mi scuserai, la cucina non è il mio forte» disse Thomas. Il profumo era neutro, insapore, un piatto mediocre come piatta era la loro vita. Ciò nonostante il cane non abbandonò il posto. Sembrava esser nato per sonnecchiare su quella sedia a capotavola. Poi Thomas, anche lui per nulla entusiasta di mangiare, ruppe la promessa che anni fa aveva fatto a sé stesso e cambiò programma: prese due bottiglie che aveva tenuto ben nascoste, una di vino e una di whisky, le poggiò sul tavolo e le guardò con commosso orgoglio.

Il primo bicchiere di vino lo sollevò verso il cane, per brindare alla sua presenza. Non gli ci volle molto affinché la prima metà della bottiglia gli precipitasse nello stomaco.

«Sono fuori allenamento» disse al cane biascicando le parole, e un rigurgito lo anticipò prima che riuscisse a svitare il tappo del whisky. Alla tua, cane cabròn. E questa volta, prima di mandare giù, si concesse un teatrale passaggio del bicchiere al naso. Sorso dopo sorso, attese gli effetti dell’alcol.

All’improvviso, come in un fotogramma che salti di scatto all’immagine successiva, il cane si bloccò come un animale impagliato, la testa bassa e gli occhi strani, spiritati, a fissarlo senza battere ciglio. Immobile come una scultura dallo sguardo intimamente feroce, non un respiro che rimandasse alla vita.

Con lo sforzo di chi è già ubriaco, Thomas si chinò a prendere qualcosa da terra. Dopo alcuni tentativi a vuoto, riuscì ad afferrare un martello da falegname. Anzi: il martello. E lo posò sul tavolo con estrema delicatezza. Il manico di legno era ormai consunto e quasi del tutto nero, il metallo era arrugginito e incrostato di macchie giallastre, probabilmente plasma vecchio di cinquant’anni.

Il cane non smetteva di fissare i suoi occhi.

«Datti da fare, cane cabròn», disse Thomas con le palpebre abbassate e un sorriso sornione e quasi del tutto incosciente, mentre un altro sorso di whisky scendeva nella mente profonda.

Cane immobile, occhi puntati sui suoi.

«Alla salute, caro mio».

 

Il telefono aveva smesso di squillare già da un’ora. Al suo posto c’erano i passi irrequieti di chi si precipitava da una stanza all'altra.

“Signor Facundo, signor Facundo! Tu non risponde a telefono e io spaventa tanto! Signor Facundo, Signor…”.

Adele si fermò davanti l’ingresso della cucina, senza avere nemmeno la forza di urlare. Thomas Kramer alias Facundo Alvarez, classe 1910, ex soldato delle SS, era riverso per terra tra cibo, piatti rotti e tovaglia strappata. E tanto sangue. La gola squarciata, la testa quasi del tutto rivolta all’indietro. Il suo regalo, un golden retriever, era accucciato sotto il tavolo con il muso insanguinato, intento a smangiucchiare il manico di un vecchio martello da falegname.