Una vita anonima

Una vita anonima

«Guten Tag. Wie heißen Sie?».

«Livia Bizzarri».

Livia si adagiò sulla poltroncina di pelle rossa del Büro. Le cosce nude appiccicate alla pelle consunta del sedile, con uno spiacevolissimo effetto ventosa.

«Ihre Addresse?».

«Donaustraße 77».

Livia vive da tre anni in Germania e insegna la lingua italiana ai tedeschi. Abita in un monolocale spazioso e luminoso, in un Altbau dei primi del ’900, nel quale convive nel fine settimana con Jakob, project manager in una Verein che si occupa di dare supporto legale ai rifugiati. Livia ha un buon lavoro, abitudini sane, relazioni multiculturali. Cose di cui i suoi genitori si vantano costantemente con vicini e parenti.

«Geben Sie mir bitte Ihren Ausweis».

Questo è ciò che tutti sanno di Livia, ma non è la verità di Livia. Non è che lei sia una bugiarda: diciamo che mamma, papà e amici in Italia se la immaginano un po’ diversamente, la sua vita, e lei non vuole contraddirli. Non è riuscita a ottenere il certificato di lingua per insegnare. Il suo monolocale è una stanza di 35 metri quadri con la muffa agli angoli che ricompare ogni mese – nonostante l’Hausmeister ci dipinga sopra ogni volta. Quella con Jakob era una relazione aperta, cioè lui può scoparsi chi vuole, oltre che lei. Insomma, quella di Livia era una vita piuttosto anonima.

«Ah, Sie kommen aus Italien! Rom und Venedig, wie schön!».

Nessuno capiva la sua decisione di trasferirsi in Germania. «Ma perché vuoi partire? Non puoi prima provare a vedere se esce un concorso qui, come fanno gli altri? Hai visto Melody, la figlia del marmista Fiore? Lei li ha fatti i concorsi». Queste erano le domande che Livia riceveva continuamente dopo la laurea. «Ma in Germania mi pagano, si vive meglio, le persone sono diverse, sono aperte… E poi torno presto, torno sempre. Con Ryanair è un attimo!». Ogni volta Livia rispondeva così, deviando la conversazione sulla distanza, sottolineando quanto semplici fossero i collegamenti aerei, perché l’Europa è solo un grande paesone con strade più larghe e lunghe da percorrere. Insomma, metteva sempre l’accento su quanto fosse semplice, oggi, vivere all’estero, con la tecnologia e tutti che parlano tante lingue. Quando diceva certe cose, riceveva sempre sguardi contrariati e compassionevoli, come si guarda un randagio pieno di pulci.

«Ja, wirklich schön».

Tutti, in paese, si chiedevano come una persona normale potesse preferire le nuvole nei boschi all’Aperol Spritz sulla spiaggia. Perciò, la conclusione era che Livia non fosse troppo normale. Lei era sollevata da quelle conversazioni che si concludevano facilmente, dal fatto che nessuno le faceva troppe domande sul perché volesse davvero lasciare l’Italia. Non mentiva: all’estero si vive meglio che in Italia, lo dicono pure i dati. Ma a parte questo? Come si fa – pensava lei – a spiegare che parti perché non vuoi diventare come loro? Parti perché vorresti contare qualcosa per il mondo e in Italia non conti niente? Oppure che non lo sai nemmeno tu perché parti? Di sicuro, in Germania lo avrebbe capito. Avrebbe comunicato meglio che a casa sua: parlava italiano con gli italiani, ma non si capivano.

«Was kann ich für Sie tun, Frau Bizarri?».

Dopo i primi tempi in Germania, successe qualcosa di strano e da cui nessuno l’aveva messa in guardia. Quando Livia parlava tedesco, le persone le appiccicavano addosso dei volti che la facevano sembrare un’altra, un piccolo mostro. Chiacchierando con Sabine, si sentiva Marylin, bionda, stupida e provocante, con il rossetto troppo rosso e il tacco troppo alto. Andreas le metteva una maschera da clown, che ride disperato a battute che non capisce: una faccia di cui non ci si può fidare. Per il capo era Judy Garland ne “Il Mago di Oz”. Una figlia, ma non la sua: troppo grande per l’empatia, troppo donna per essere presa sul serio. Per Jakob era un’attrice di Cinecittà, gridava Marcello, come here! sventolando una caffettiera con la mano. Per Kristin era la piccola fiammiferaia, un mezzo per vantarsi della sua inclusività. Quando tornava a casa – se non era troppo stanca – certe facce andavano via facilmente. Bastava un panno imbevuto di qualcosa che aveva sottomano: un libro, un po’ di musica, un film, alcol, una carezza. In alcune occasioni ci andava anche a dormire e le teneva su, se le donavano. Altri giorni, invece, certe facce non si staccavano, erano incollate. E Livia le odiava, la soffocavano e doveva strapparle a pezzi, con le unghie, finché non venivano via, quelle piccole Livie impostore.

«Ich möchte mich abmelden».

Così, Livia aveva cominciato ad avere un incubo ricorrente. Era una bambola, alla mercè di due bambine capricciose: una di nome Maria, l’altra Brigit, una abbronzata, l’altra diafana, una mora con gli occhi scuri, una bionda con gli occhi chiari, e le tagliuzzavano i capelli e le cambiavano vestiti e scarpette.

«Ziehen Sie um?».

Un paio di settimane prima che Livia si presentasse al Büro del quartiere, fu svegliata da gridolini provenienti dalla finestra della sua camera da letto. Erano le quattro del mattino. All’inizio non ci fece caso e tornò a dormire; il quartiere dove viveva – un gruppo Plattenbau, una fatiscente oasi residenziale della Germania dell’Est – era costellato di pazzi, vecchi soli e non presenti a sé stessi, mutilati o mendicanti. Ve ne era una sorprendente concentrazione, per il semplice motivo che gli alloggi costano meno lì che in altri posti. Ma le urla biascicate continuarono, così strisciò di malavoglia fuori dal letto e si avvicinò a piedi nudi alla finestra. Scostò la tenda.

La scena che vide la colse impreparata. Un conato si fece strada fino alla gola e poi tornò giù, alla bocca dello stomaco. Un uomo – avrà avuto circa trent’anni – era steso a terra. Pareva un santo martire di un qualche affresco in chiesa. Le sue gambette emaciate erano ripiegate ad angolo retto sul marciapiede, mentre dalla vita in su giaceva a terra. Faceva dondolare la testa sull’asfalto e diceva cose incomprensibili. A prima vista, sembrava stesse facendo un bel viaggio e avesse scelto di farlo proprio sotto la finestra di Livia. Una signora con i capelli rossi, corti e ricci come quelli del barboncino che portava al guinzaglio, stava in piedi accanto a lui, lo vegliava. Ogni tanto gli prendeva un braccio e tirava forte, cercando di rialzarlo. Ma lui viaggiava e si lamentava. “Testa di cazzo”, pensò Livia dopo aver inghiottito il suo stesso vomito. Tirò la tenda e si rimise a letto. Ma i lamenti non smettevano e la signora tirava e diceva cose incomprensibili. Si alzava, scostava la tenda ed erano sempre lì, ora dopo ora. “Forse dovrei aiutarli”, pensava Livia, “forse hanno bisogno di me”. Ma non riusciva a fare niente, aveva paura di fare tutto. A mano a mano che la notte rischiarava vedeva altri guardare la scena e passare oltre, i vicini si affacciavano, esibivano facce seccate e rientravano dentro. Livia rimase distesa sul letto, paralizzata. Dopo un paio d’ore, l’uomo e la donna non c’erano più e lei decise che era il momento di andarsene.

«Ja, ich gehe zurück nach Italien».

Livia era partita per diventare Livia, e alla fine non era più nemmeno Livia. Non apparteneva a nessun mondo per cui contare qualcosa. L’avesse saputo prima, avrebbe detto che non aveva idea di cosa fosse meglio per sé stessa. Avrebbe detto che partiva perché aveva confuso le persone con le mete dei loro viaggi. Avrebbe detto che, comunque, doveva partire per trovare il senso di tornare.