PARTITURESilvia Fornaroli

Sottopelle

PARTITURESilvia Fornaroli
Sottopelle

L’ago deve penetrare perpendicolare alla pelle, entrare al massimo due millimetri e uscire quanto basta per non infiammarla strisciandoci sopra. Se sbagli l’angolo di lavorazione e vai troppo in profondità, il colore entra nell’ipoderma e si espande a creare una specie di livido permanente. In gergo, diciamo che le linee “scoppiano”. La cotenna di maiale e i supporti sintetici non offrono una sensazione al cento per cento veritiera, così la maggior parte di noi prova su se stesso, finendo per riempirsi il corpo di esperimenti, alcuni più riusciti di altri.

Posso dire di aver cominciato questo lavoro esercitandomi su mia madre: al posto di quei banali braccialetti su cui scrivere informazioni utili, le avevo inciso addosso il nostro indirizzo di casa, il mio numero di telefono e la scritta “per piacere, riportatemi a casa”. Credevo di aver fatto tutto per bene ma penso di aver calcato troppo la mano e un alone scuro si era presentato poco dopo sul suo braccio sinistro, rendendo il mio capolavoro completamente inutile.

«Vedi quella roba che ha l’aspetto di una carogna spiaccicata da un pirata della strada? Quella avrebbe dovuto essere una tigre in stile giapponese» dice il mio maestro, indicando un gatto strabico con le zampe ritorte in una posizione innaturale. «Vedi questo Jared Leto strafatto che sembra reggersi a un palo? Quello in origine era un Cristo crocifisso.»

Lo studio in cui mi trovo è specializzato in cover up. Salvataggi di culo per tatuaggi venuti male. L’ultima spiaggia di aborti creativi realizzati da gente inaspettatamente dotata di pollice opponibile. Il mio maestro si prende cura di questi poveri sgorbi, li trasforma e li riporta alla vita come creature con un minimo di dignità. Non sempre è fattibile, però. Il gatto spiaccicato, per esempio, era totalmente spacciato. Definitivo. Zero. Non valeva neanche la pena di operare per recuperarlo. Quelli come il gatto vanno proprio coperti, sperando che il marcio non cerchi di riaffiorare quando pensi di essertene ormai liberato.

«La macchia su quell’avambraccio non dice che hai una personalità ostile ma, semplicemente, che sei un fan di Batman» dice il maestro che, chiaramente, conosce a memoria i test di Rorschach.

«Osserva quella coppia di bambini. Guarda quello a sinistra, quello che assomiglia a Danny DeVito. Beh… Quello è piuttosto in linea con l’idea del cliente, in realtà. Quel tipo aveva un senso dell’umorismo tutto suo.»

Da noi non si tatuano simboli politici o dichiaratamente offensivi, la gente non se lo immagina quasi mai, ma siamo molto attenti all’etica professionale. Pur non avendo un regolamento che lo vieti in maniera esplicita, sconsigliamo anche di imprimersi addosso iniziali e nomi di fidanzati o qualsiasi soggetto che prima o poi potreste rischiare di odiare.

«Cosa leggi qui?» Il maestro mi mette davanti una nuova serie di fotografie.

«Ehm... Herpes?» dico, pur rendendomi conto che non sarebbe qui se fosse quello che sembra.

«C’è scritto Hermes. Il messaggero degli dei. Capisci l’ironia?» Il maestro è serio, vuole che comprenda l’importanza di fare linee pulite. Adesso ne indica un’altra. «Qui. Cosa leggi?»

Vagina leggo. Lì ci leggo proprio vagina. Il cuoricino di fianco mi fa supporre che il proprietario di questo tatuaggio sia un vero amante dell’organo sessuale femminile.

«No. È Virginia. Stai cominciando a capire?»

Continuo a sfogliare fotografie e quelle con pattern ripetitivi mi suscitano una certa angoscia. Ho scoperto che si chiama tripofobia — paura dei buchi — e adesso, per darmi un tono, infilo questa parola dappertutto.

I disegni geometrici, se realizzati in maniera approssimativa, tendono a collassare su loro stessi dopo un po’ di anni, diventando un branco di linee informi che, dopo aver corso vicine per qualche tempo, hanno sollevato talmente tanta polvere da essersi scontrate. La regola che due rette parallele non si incontrano mai è totalmente priva di senso nel nostro mondo. La pelle è dinamica, viva, cresce con noi e cambia insieme a quello che vi abbiamo inciso sopra. Mi ricorda il protagonista di quel romanzo — mi pare sia piuttosto famoso — dove il ritratto invecchia e si abbruttisce al posto suo. Qui funziona così, ma al contrario. Qui sei tu che invecchi e ti riempi di merda, ma una mano ferma e le nostre macchinette dal rumore consolatorio possono riportare indietro le lancette dell’orologio.

«Questa, la vedi?» chiede il mio maestro. «Questa non è Uma Thurman dopo un'ustione di terzo grado. Questo è un principiante che si è spinto troppo in là con il set di aghi sbagliato.»

Il bello dei tatuaggi è che puoi mascherare quello che non ti va più di portare addosso. La cicatrice di un’operazione che non ti piace ricordare, se ben lavorata, può diventare un portale da cui far uscire esseri mitologici. Il foro di proiettile che disturba ancora i tuoi sogni potrebbe tramutarsi nel sole che illumina un veliero in stile old school. Non sto dicendo di deturparti da solo o di andare in giro a farti sparare, ma voglio che tu sappia che un buon tatuatore può rimediare a quasi tutto. In un certo senso è come se potessimo intervenire sul tempo stesso, modificandone i contorni per dar vita a viaggi a senso unico.

Mia madre soffriva di Alzheimer, buchi di memoria, e il pensiero che si potesse perdere mentre io ero lontano mi terrorizzava — soffrivo già di tripofobia, evidentemente. Avevo scelto un ago sottile, settato una velocità bassa e usato un inchiostro non troppo liquido. Adesso so che la mano deve rimanere ferma ma morbida, bisogna saper gestire la vibrazione dell’impugnatura altrimenti sembra che, sotto la pelle, i tuoi tendini impazziti inviino segnali in codice Morse. Punto e linea, punto e linea.

Stai facendo una stronzata, avranno detto i miei in quel momento.

Il maestro continua a mettermi di fronte le sue fotografie: vuole che non dimentichi le motivazioni che mi hanno portato fin lì. Vedo una chiazza informe su un braccio sinistro: le coordinate salvavita che avevo tracciato hanno lasciato il posto a serpenti che sembrano reduci da un incontro con un tir.

«Cosa si legge qui?» mi sento chiedere a voce più bassa.

Niente. Non si legge più niente.