PARTITURERenzo Favaron

Un sogno, il mulino sui sandoni, l'amica e i vuoti della mente

PARTITURERenzo Favaron
Un sogno, il mulino sui sandoni, l'amica e i vuoti della mente

A Rottanova sono legati i ricordi della mia infanzia più remota, ricordi che hanno per lo più la durata di un flash. Piccoli amici non ne avevo, anche se frequentavo l'asilo e vedevo tutti i giorni altri bambini. Del resto, Rottanova era un minuscolo borgo e a farla da padrone era la terra, una terra mostruosamente spopolata, in cui non ci si sposava e si facevano sempre meno figli. Come altri borghi devastati dall'alluvione del 1951, Rottanova non era un posto in cui emigrare, ma da cui emigrare. «Qui si crepa e basta», mi disse una volta il campanaro. O credo che mi avesse detto così, perché scoppiò a ridere per diventare serio di colpo e aggiungere: «Tutti si alzano, comunque, con le galline».

A me piaceva dormire fino a tardi e, quando mi alzavo, bevevo il caffellatte e passavo a trovare Vincenzo, il calzolaio. Si può dire che era l'unico amico che avevo. Parafrasando un verso del poeta da me più amato, anch'io non ricordo «il gesto che s'incise», ma ogni giorno facevo visita al calzolaio, che mi aspettava con una caramella di rosolio, e io la succhiavo e poi mi accomodavo nel suo stambugio. Avevo tanto tempo. Vincenzo mi diceva sempre che non vedeva l'ora di Andarsene, di Partire. Lo stambugio non era riscaldato e in estate era completamente esposto ai raggi solari. Ci penso solo adesso, perché allora mi piaceva quello stambugio e mi piaceva assaporare l'odore di mastice, persino l'odore di scarpe vecchie, nient'affatto sgradevole (il cane di mio padre, Tope, aveva lo stesso odore). Soprattutto, era una gioia per i miei sensi osservare Vincenzo maneggiare la lesina, il trancetto, la tenaglia per gli occhielli e ascoltare il martello che picchiava la suola di una scarpa infilata nel piede di ferro.

Meraviglioso.

Vincenzo era meraviglioso. Niente mi affascinava più dei suoi gesti e del frastuono che faceva quando conficcava le brocche lungo il bordo di un tacco. A volte Apollonia mi doveva strappare a forza da quel posto. Non sapevo ancora leggere né scrivere, e nello stambugio la mia anima si immergeva in un bagno d'ozio, aromatizzato dalla curiosità e dallo stupore. Un giorno, mentre Vincenzo risuolava una scarpa, cominciai a sognare Fred Astaire. (Mi ero addormentato sulle assi di legno, il mio piccolo corpo affondava in questa superficie come se fosse un materasso soffice.) Lui, Fred Astaire, scendeva da una scala bianca e abbagliante. Indossava un frac nero e l'orlo della giacca gli cadeva proprio sopra i calcagni. Mentre scendeva, si udivano vibrazioni metalliche, suoni di sirena. Poi i rumori confusi cessarono di colpo e Fred Astaire saltò con un solo balzo quattro scalini. Per un attimo temetti che gli sarebbero cedute le gambe; invece, quando atterrò, fece un sorriso e batté i piedi, tacco e punta, sul liscio parquet: tap tac tap. All’improvviso, il volto di Fred Astaire cominciò a mutare e ad assumere i lineamenti di Vincenzo. Dapprima fu uno shock, poi i miei pensieri si misero a volteggiare con una leggerezza pari a quella di una piuma trasportata dal vento. Provavo una sensazione piacevole di benessere e, quando il volto di Vincenzo sostituì completamento quello di Fred Astaire, mi svegliai e la prima cosa che sentii fu il beat sporco del calzolaio: tap tac tap.

Dopotutto, il tempo passava veloce ‒ era una macchina del vento che sfogliava un calendario. O così mi sembrò fino a quando Vincenzo non chiuse lo stambugio ‒ fino a quando non partì. Da quel momento il tempo si fermò. Le lancette dell'orologio rimasero sempre nello stesso punto e il borgo diventò più desolato, vuoto e, soprattutto, silenzioso.

Una mattina, mentre Guido mi portava a scuola gli dissi che anch'io volevo Partire, Andarmene.

Lui mi prese la mano e, secco, sospirò:

«Dove?»

Non risposi. Qualcuno mi spezzava il cuore a colpi d'ascia. E piansi, ma poco. In fondo, la volatilizzazione di Vincenzo era una specie di déjà vu (ricordo bene. Che tristezza! La miseria era quasi assoluta e gli splendori del boom cominciavano e finivano con Carosello).

Ora non sembra più tanto tempo fa.

I fitti nebbioni che si addensavano sul borgo ancora mi accompagnano come i personaggi di quella stagione. Mi verrebbe da dire: agrodolce. E non per altro, solo perché coincise con il passaggio da una civiltà a un'altra, da quella contadina a quella industriale. Nel mio anno di nascita, tanto per dire, per la prima volta gli occupati in agricoltura furono inferiori a quelli dell'industria. Anche il paesaggio mutò, seppure non uniformemente. Soprattutto nei borghi rurali più remoti, le cose nuove non soppiantarono quelle vecchie. Anzi, la natura tornò a essere più potente, più padrona. La gente voltava le spalle alla terra, i mestieri nei campi non erano buoni né veri. Come a Forcarigoi, così a Rottanova i più si guadagnavano da vivere facendo i pendolari, facendo (tutti i giorni) otto o nove o dieci ore di lavoro e 80, 100, 120 chilometri di strada. Eccola, la modernità, il cambio di civiltà e l'antico sociale dei giorni che mi precedeva e mi seguiva quasi trasparente. Io non ero che un avannotto, come ho detto, inspiravo e inspiravo rasente al suolo e ora mi rivedo a fianco di Apollonia, l'una e l'altro a piedi scalzi e le nuvole come broccati veneziani sul pavimento del cielo. 

Stiamo andando dal «munaro», che non so chi sia né cosa faccia. Comunque, attraversiamo il ponte, percorriamo la strada principale e cominciamo a salire l'argine sinistro dell'Adige. Prima di arrivare in cima, mi fermo per riprendere fiato. Apollonia accenna un sorriso e proprio allora mi giunge all'orecchio il trapestio di qualcosa che si muove con tonfi e scricchiolii. Ho frequentato lo stambugio di Vincenzo, ma raramente i colpi del martello mi ferivano le orecchie. I tonfi e gli scricchiolii hanno invece poco di ritmico e sono incuriosito non meno che intimorito. Così Apollonia mi trascina, finché l'argine spiana. Non sono tranquillo e, quando scorgo la cascina galleggiante da cui provengono i tonfi e gli scricchiolii, mi blocco di colpo. Il timore adesso è superiore alla curiosità.

«Mica ti mangia», dice mia nonna, in tono lieve. Sono incerto se domandare «Chi?» o «Cosa?» e mi limito a scuotere la testa. «È solo un mulino», torna a dire lei. Io scuoto ancora il capo, non ascolto che il minaccioso trapestio e arretro di un passo. Quello che per lei è solo un mulino per me è qualcosa di infernale, una sinistra testa di morto angolosa e tritacarne. Per rassicurarmi, Apollonia mi fissa negli occhi, mi cerca la mano. In lei non c'è ombra di scherno, ma io arretro di un altro passo e rifletto, fantastico, mi rodo.

«Con che cosa?» domando, non senza una certa severità. Prima che lei risponda, il trapestio aumenta d'intensità, adesso sale da tutto il fiume, glauco, traditore, plana a terra, si abbatte dall'alto del cielo. Non ce la faccio più, mi volto e comincio ad allontanarmi, tutto curvo. Di colpo scoppio quasi a piangere. C'è un po’ di tristezza in questa ritirata, la tristezza delle battaglie perse.

Forse esagero, forse non è niente.

Comunque, tiro fuori dalla tasca di dietro dei pantaloni la barretta di chewing-gum, la metto in bocca e faccio una bolla sulla punta della lingua. Dieci metri dopo el moeta (l'arrotino), su un muretto sta seduto un bambino. Lo riconosco: ho visto il suo ritratto su un medaglione che una lattaia portava al collo. Il bambino fa segno di avvicinarsi e quando mi accosto mi chiede di allacciargli le scarpe. Guardo i suoi piedi e vedo che non calza scarpe ma sandali, e che le fibbie sono a posto. Il mio disagio si stempera in un sorriso e il trapestio, che avevo in testa fino a poco fa, finalmente tace. L'aria torna dolce. Poi…

Poi, i ricordi di quel giorno finiscono qui, a parte uno: a cena non mangio né pane né polenta.

Ripensandoci, Apollonia era letto, casa e basta. Forse credeva in spirito e verità, ma non andava mai a messa e tanto meno frequentava amiche. Il suo mondo era la famiglia e il centro del mio mondo era lei. Questo era vero anche quando ero in compagnia di altre persone, era del suo mondo che mi riempivo la bocca. Accanto a lei non sentivo il peso della mia vita; il breve passato, l'ignoto futuro. O, meglio, quando la mia vita non era un idillio, se così si può dire, mi attaccavo a mia nonna e lei si comportava con me alla stregua di un'amica. Ad esempio, dopo che Vincenzo partì, stavamo seduti su due sedie, non l'uno di fronte all'altra, parlando del più e del meno, a scambiarci i pensieri. Apollonia mi raccontava della sua vita a Forcarigoi. Una volta mi raccontò di quando si festeggiava il patrono del borgo. Aveva un'amica, sospirò, cui era molto legata. Si chiamava Claretta e, per quanto avesse un'origine più che umile, in quell’occasione si trasformava in una dogaressa.  «Era adorabile», mi disse. «Diciamo che, qualsiasi cosa vestisse, fantasticava di essere una libellula e spiccava il volo,  e così passavano in secondo piano i glutei quadrati, le sue grosse caviglie e le altre imperfezioni che sono troppe per dirle tutte. Se chiudo gli occhi adesso non c'è memoria di quello che era in realtà», aggiunse, «ma di quello che diceva di essere. Tutti a Forcarigoi pensavano che fosse a dir poco tócca, ma vedere Claretta piroettare era come… come vedere qualcuno che è venuto al mondo apposta per il ballo. Sì, anche se non era un fuscello, si metteva sulle punte ed era lieve come una piuma».

Apollonia s'interruppe e rimase a lungo in silenzio. Sembrava avere perso la voce, come se fosse alle prese con qualcosa che le era difficile ricordare.

«Quella volta si era immaginata un abito da ballo latino americano che lasciava scoperte le spalle mettendo in mostra l'incavo tra i seni e nessun neo ma perline a centinaia, e lo diceva che sembrava reale e anch'io lo immaginavo e avevo paura di sfiorarle lo sbuffo per non stropicciarne e sporcarne il tessuto. Naturalmente, c'era gente, sai, che si faceva beffa di lei. Oltre a esserci una e una sola Claretta metà reale e metà immaginaria, c'era altresì un garzone che non si limitava ad avere le fattezze di un grande ma era anche una creatura selvatica per il modo in cui era venuto su. Non aveva un nome, ma due cognomi: Olante Baccan. Dettaglio importante: nessuno lo aveva mai chiamato con un nomignolo, neanche ai tempi in cui (negli anni in cui?) era cinque o sei volte più piccolo di suo papà. Olante Baccan lo si sentiva bisbigliare, come fosse un’arma da fuoco o uno slogan. Inutile dire che, benché avesse dei bellissimi denti, con Olante Baccan non avrebbe mai ballato nessuna giovane di buona famiglia perché  niente di buono sarebbe venuto da lui. E così, lo ricordo come fosse adesso, dopo essersi guardato tutt’intorno: 'Mi concede questo ballo?', chiese a Claretta. Non so che cosa sia passato nella testa di lei, immagino non credesse alle sue orecchie. 

«Già», disse Apollonia, «Olante Baccan non era come i ragazzi che portavano ancora le sgalmare, era un subdolo vortice che risucchia».

Il cane ai suoi piedi uggiolò sognando di ratti. Io sospirai, guardandola come se non l'avessi mai vista prima e insieme con un'ondata di tenerezza, un desiderio di proteggerla.

«Ora», riprese, «non sembra più molto tempo fa. La turba dei parrocchiani non staccava gli occhi da loro. Di lui, Claretta di certo conosceva vita morte e miracoli, ma Olante Baccan era pari a una meta, quasi che fosse la sua anima gemella, e lei con il suo tutù sbavava pronta a spiccare il volo. Ricordo, per farla breve, che mi strizzò l'occhio e anche se lo spazio tra noi era come quello tra il naso e la bocca io avvertii che la iera sbaotà e strapegà via, avvertii quel vortice che risucchiava ingordamente».

Mia nonna chiuse gli occhi un istante e si passò la lingua tutto intorno alle labbra.

«Dopo la festa del patrono», riprese, «i pettegolezzi alle sue spalle si sprecavano e nessuno era benevolo. Io non li prendevo in considerazione ma Claretta, anche se aveva buona schiena, non poté tollerarli. Diventava più voluminosa e massiccia e i suoi occhi erano sempre meno vispi. E non sapeva quasi più fare cose magiche. Prima che si festeggiasse il patrono del borgo, tanto per dire, poteva trasformare l'aia più sporca in un'aia per i balli.  Adesso riusciva a far brillare una giornata umida solo quando c'era anche Olante Baccan, il garzone con i suoi due nomi di famiglia e lei con un nome che a molte orecchie suonava ormai fastidioso, anche se Claretta, almeno quella di cui ti parlo, non aveva mai fatto del male a nessuno

«Lui, come ho detto, era una creatura selvatica, e qualcosa di più: un animale. Non per altro, solo perché non si comportò come un uomo. La ingravidò e Claretta avrebbe dovuto ampliare il suo guardaroba. Era una cosa normale, ma per lei insopportabilmente prematura. No, non c'era maniera di modificarla, di sclerare e scacciarla. Il pensiero di quello che le stava succedendo diventò più grande della sua vita e una sera, per colpa del rimorso e delle chiacchiere, una sera si lasciò cadere dal ponte della ferrovia. Nessuno la cercò e anch'io, tanto per cambiare, piansi in qualche modo dentro, ma non versai neppure una lacrima. Già: i firmamenti non sono umani, ma forse c'è qualcosa di più importante, l'empatia che ho dimenticato».

Cosa Apollonia mi volesse dire con questa storia, lì per lì mi sfuggiva. Ma non aveva ancora finito, perché smise di ricamare e fermò a mezz'aria la mano che stringeva l'ago. Mi sfiorò con l'altra mano, poi mi carezzò e scandì con voce profonda, rotta:

«A ciò che non si può avere, si deve saper rinunciare. Me lo ripeteva sempre la tua bisnonna. Pensa: se Claretta fosse cresciuta in una famiglia come la mia, forse oggi non ti avrei parlato di lei. Sfortunatamente, sua madre crepò per metterla al mondo e il padre ci lasciò le scarpe sul fronte russo. Sai, credo che mai le avessero detto di non darsi per niente e perciò, quando Olante Baccan le chiese di ballare, lei non sentì nessuno che la tratteneva e l’assenza di una voce interiore le fu fatale».

Io non dissi nulla ‒ nemmeno una parola banale, inutile. Apollonia abbassò la testa e tornò a ricamare. Forse pensava già ad altre storie e le mie orecchie si tesero di nuovo in ascolto.

E niente.

Tra me e Apollonia c'era una generazione di mezzo e, anche se non è una giustificazione, ammetto che le sue lezioni mi entravano da un orecchio e mi uscivano dall'altro . Per di più, con l'inizio della scuola elementare mi allontanai da Rottanova. Che lo volessi o meno, andai ad abitare con mia madre in un quartiere residenziale. Passare dalla campagna a un centro urbano mi portò a frequentare l'oratorio e a farmi i primi amici. Non solo: avevo una capanna, avevo un'armonica a bocca da cui non mi separavo mai e dalla porta sbirciavo la finestra di fronte dove c'era una graziosa fantesca sempre indaffarata a spolverare, ma che si affacciava ad ascoltare le serenate che improvvisavo per lei. Così sono passati gli anni '60 e '70: a metà degli anni '80, durante una licenza al servizio militare, andai a farle visita. Era seduta sulla poltroncina della sala da pranzo, come al solito intenta a eseguire un ricamo in bianco.

Apollonia non aveva mai avuto bisogno di ricamare tovaglie e tovaglioli per soldi; così il tempo sin da quando la conoscevo. Erano passati più di vent'anni e né la radio né la televisione erano riuscite a scalfirla, a destare in lei la più piccola curiosità o attenzione. A dirla intera, credo che in vita sua non sia andata mai una volta al cinema o a teatro. Anche quando Guido fece istallare il telefono, lei non se ne curava e lo lasciava squillare. Era come se Apollonia non avesse mai varcato la soglia della società industriale e non fosse mai andata via da Forcarigoi, dal tempo in cui dopo l'aratura la terra argillosa non si lasciava frantumare dall'erpice e bisognava spaccare le zolle con il rovescio della zappa prima che il sole le rendesse dure come sassi. Non esagero e comunque quando le ho fatto visita ha sbattuto le palpebre e mi ha guardato con una faccia perplessa, come se fossi un estraneo. Io l'ho salutata e lei non ha pronunciato il mio nome nel ricambiare il saluto, ma quello di un altro nipote. Lì per lì non sono rimasto colpito, anche se da lei non mi sarei mai aspettato un lapsus del genere. O, forse, non volevo riconoscere un sintomo che cominciava ad alterare la sua capacità di giudizio (nel frattempo, mi ero laureato in psicologia e avevo imparato l'eziologia di molte malattie del cervello sia di origine mentale che di natura organica). Di fatto, quel chiamarmi con un altro nome era il prodromo di un addio.

Nel giro di pochi mesi l'amnesia di Apollonia si è aggravata e, quando sono tornato da lei, era seduta al solito posto accanto alla finestra, ma immobile e già ridotta a una pianta di Sansevieria: spenta; e questa volta non solo mi ha salutato con il nome di un altro nipote, mi ha scambiato per l'uomo che aveva messo incinta Claretta. La coscienza era andata, tanto che la sorella di mia madre mi ha detto che ormai non si poteva più lasciarla in casa da sola. Oltre a ciò, mi ha confessato che un giorno l'aveva scambiata per una cugina che si era lasciata cadere dal ponte della ferrovia e che aveva insistito con lei, la sorella di mia madre, a proposito di un anello svenduto da suo padre in tempo di guerra per mangiare. Infine ha aggiunto: «Lo psichiatra non ha saputo dirmi se si tratta di demenza o di Alzheimer. Ad ogni modo, dice che perderà sempre di più la competenza dei gesti». La sorella di mia madre ha fatto una pausa. Poi si è asciugata una lacrima con un dito e, abbassando la testa, ha borbottato: «Non bastasse, perderà anche ogni controllo di funzione». Inutile dire che «perderà ogni controllo di funzione» significava che al decadimento mentale sarebbe seguito quello fisico.

E così è stato. Prima, i vuoti della mente di Apollonia sono diventati integrali; poi, il corpo ha cominciato a scarnificarsi; alla fine non è più riuscita a reggersi in piedi. Ha trascorso i suoi ultimi giorni a letto, dipendente in tutto dalla sorella di mia madre. La sorella di mia madre ha sopportato stoicamente le sofferenze di Apollonia, i suoi improvvisi sbalzi d'umore, il suo spegnersi come una candela.

L'ultima volta che l'ho vista, che ho visto Apollonia, non ho visto un essere umano, ma una prigione sotterranea, una cella le cui pareti si stringevano sempre di più. Giaceva a letto, il corpo ricoperto di piccole piaghe e intrappolato dentro sé stesso, il suo intero essere non vivo e non morto. Mentre ero assorto a guardarla mi è venuto da piangere, non perché mi facesse pena, ma perché in quel momento mi sono reso conto che Apollonia era l'unico essere di cui mi importasse veramente e che al mondo non ci sarebbe stata nessun'altra come lei. Sì, io le ero appartenuto, le sarei appartenuto sempre e, adesso, mentre se ne stava andando, più di una volta ero stato sul punto di dirle qualcosa; all'ultimo momento rinunciavo sempre. Avrei voluto sapere a cosa pensava, quali immagini le passassero per la testa. Alla fine le ho preso la mano, l'ho baciata sulla fronte e ho provato a farle qualche domanda. Inutile: le mie parole non hanno svegliato alcuna eco e l'ho lasciata in pace.

L'ora passava lentamente. Poi un curioso fenomeno è accaduto. La sua testa si è girata verso di me e ha bisbigliato: «Chi sei?». Sono rimasto allibito; solo, ho saputo sillabare: «Sono io, Renzo». Silenzio. «Sono tuo nipote, Renzo», ho ripetuto, ma il contatto era già concluso: Apollonia ha rivoltato la testa all'indietro. Ha chiuso gli occhi e la bocca ha preso una piega misteriosa, che non sapevo come interpretare. Ironia, pace, cos'altro? Pace, mi sono augurato.

Due giorni dopo è morta.