PARTITUREMartino Costa

Canto di Natale

PARTITUREMartino Costa
Canto di Natale

Ci sono storie che andrebbero scritte a ritmo di giga, con rima baciata e tonalità in Re maggiore, come una filastrocca a strofe alternate, un Canto di Natale di Johann Sebastian Bach, con gli oboi, i timpani e le trombe squillanti.

 

Barbablù se ne stava incantato a rimirare le foglie gialle che danzavano al vento come ballerine astrali, mentre la sveglia legata al collo rotolava sul suo pancione sferico che sferico è dire poco, un bel mappamondo tagliato a tre quarti, ricoperto da decine di strati di indumenti lerci, su cui Barbablù batteva il ritmo con le dita tozze e luride come fosse il tamburo di un Babbo Natale d’Africa e canticchiava a mezze labbra una ninna nanna nella sua personalissima versione raffinata in anni di esibizioni solitarie, con le parole sconce messe nei punti giusti, e rideva a crepapelle nel tenace intento di farsi gioco della morale borghese che lo faceva andare in bestia: avrebbe persino potuto sputare per terra il misto di saliva, catarro e vino acido, anche se, a dire il vero, con la borghesia ci faceva pace quando davanti alla panchina su cui sedeva come un re in panciolle se ne sfilavano a gruppi di tre le fanciulle, di corsa, fasciate nelle loro tute aerodinamiche: i seni di alcune che puntavano al cielo come pistilli di fiore in primavera; quelli di altre, più attratti dalla forza di gravità, che saltava e rimbalzavano come dense lune piene di pasta cruda. Comunque entrambi i tipi erano perfetti per celebrare la meraviglia del creato, tanto che Barbablù smetteva di fare qualsiasi cosa stesse facendo, spalancava la bocca in un sorriso a denti alterni e diceva: “Signorine, bele signore…” in un sibilante omaggio alla femminilità e alla primavera, che a suo modo di vedere erano la stessa cosa, e non stava nemmeno lì a crucciarsi dell’età e delle stagioni, ché per lui era comunque un’eterna primavera, uno sbocciare di seni e di culi, di foglie secche e di fiori accesi, al ritmo ciclico di ogni cosa che muta in un’altra e poi ritorna se stessa, la luna e le stelle e il cielo blu percorso da nuvole ribelli, e bimbe che si fanno donne che mettono al mondo altre donne che invecchiando ritornano bimbe mentre lui, Barbablù, il Signore del Niger, il Gran Mago del firmamento boreale, con al collo la sua bella sveglia rotta a ricordare al mondo che il tempo è un’illusione, e un istante dura un secolo e un secolo un istante, se ne sta a osservare le foglie che cadono, le bimbe che giocano, le fanciulle che corrono, mentre nettare color porpora gli rinfresca le cavità orali altrimenti secche quanto il vento del deserto, e lui celebra la vita tra un rutto e un rimescolamento di stomaco – chissà gli smottamenti che avvengono lì dentro, i terremoti, le eruzioni, quasi che il mondo, all’interno di quel mappamondo, fosse ancora una Pangea in continua espansione, continenti che vanno alla deriva, mari che ribollono, atmosfere azotate e terribili – alzando il cartone al vento, lanciando due parole sporche alle signore che accelerano il passo, e ridendo di tutto questo, nel suo cappottone scuro, le scarpe da basket, e una corda a tenere su i pantaloni laschi come sacchi di juta.

La giornata prometteva bene, una bella giornata invernale, il Natale alle porte, pochi spicci in tasca, quattro strati di sporco sulla pelle a proteggerlo da intemperie e malattie, un paio di calzini quasi nuovi sgraffignati in un rifugio dalle parti della stazione, e il vento sbarazzino che si intrufolava nei ricci brizzolati della barba, si perdeva tra le spire dei peli ispidi e spessi e li faceva cantare in un’orchestrina di flauti di bambù, e lui se la rideva mentre, alle prime gocce di pioggia, cercava rifugio sotto la tettoia del gabbiottino del gelataio che da maggio a settembre allunga ghiaccioli e lecca-lecca e caramelle e gazzose, e intanto fa saltare in cassa monete sonanti come biglie di vetro.  Giù in Africa manco sapeva che cos’era il freddo, si lamentava anzi del caldo schifoso, che non ti lasciava mai, giorno e notte col caldo, a scaricare navi mercantili al porto di Dakar, nella tuta blu da portuale in regola, bello e alto come un manzo da monta, le mani grosse e forti, la pancia piena, e un arnese tra le gambe che faceva cantare di gioia le sue molte donne quando la notte se le portava con sé nella stamberga che divideva con una manciata di compagni, lavoratori come lui, gente con la schiena dritta e un dio in cielo a sorvegliare ogni loro passo; un caldo che lo faceva sudare come se al mondo non ci fosse altro che umidità e arsura, le casse da cento chili sulle spalle, e la città che riverberava in lontananza, con la costa a sud appena visibile intrappolata in una foschia densa di olio di motore e vapore acqueo, che si rivelava in circoli spessi come il legno, e ogni tanto ci baluginava un palazzo del centro, la torre degli uffici dell’Air Afrique, e a Barbablù – che al tempo non si chiamava così, ancora non lo sapeva bene quali meraviglie lo avrebbero aspettato dall’altra parte del mare – sognava di lasciare la miseria e trasferirsi in Europa, a contare le stagioni come allora contava le navi che passavano lente all’orizzonte immerse nel rosso fuoco del tramonto e le onde sbattevano pigre il loro sciaff sciaff sul molo di cemento armato che scioglieva le infradito da due soldi di Babakàr, giovane virgulto d’Africa. Lui, Babakàr, le navi le vedeva sfilare a decine, nelle ore pigre del venerdì, con i minareti alle spalle che alzavano canti rauchi a un Allah lontano e silenzioso, mentre cercava di recuperare la fatica nel caldo del pomeriggio che si tramutava in grosse gocce di sudore: stillavano dalla pelle sebacea e scendevano a rivoli lungo la schiena martoriata dai segni delle cinghie con cui sollevava casse e cassoni per dieci, dodici ore al giorno quando caricava e scaricava i container, sotto lo sguardo divertito dei marinai filippini, poco più che lombrichi al cospetto di quelle divinità negre, che si davano da fare sul pontile; anime in pena di un girone infernale. I filippini stavano su in alto, un lungo filo d’erba tra i denti, qualcuno sputava giù nell’acqua nera del porto, qualcun altro sorseggiava un’aranciata ghiacciata, sotto il sole rovente di Gibraltar. E fu proprio in uno di quei pomeriggi assolati, tra il borbottio di un motore diesel e le sirene di un mercantile in avvicinamento, che Babakàr si infilò nel primo intercapedine di metallo che trovò, strisciò fino in fondo, trattenne il respiro e aspettò in silenzio che la nave salpasse e che le grandi, agognate onde dell’oceano lo cullassero, come una madre premurosa fa con il figlio perché si addormenti. E Babakàr si risvegliò Barbablù dall’altra parte del mondo, depositato con amore da quello stesso mare che lo aveva protetto durante il viaggio, sotto un immenso cielo stellato, che gli ricordava le notti al villaggio, tra bicchieri di tè bollente e zuccherato, e canti, e balli.

Di che pasta fosse fatto l’altro lato del pianeta lo scoprì presto, mentre trascinava il suo culo di gomma da una parte all’altra delle città, cercando impiego un po’ ovunque, senza documenti, senza diritti, un negro alla mercé della fortuna, con un dio strabico conficcato su in alto nel firmamento e che non se lo filava di pezza, lui, già da un po’ si era quasi dimenticato come si chiamava, i barboni della stazione ci avevano riso su quasi tutta la notte, mentre tracannavano litri di vino rancido e allungavano con generosità la bottiglia anche a Babakàr, che scuoteva la testa riccia e ripeteva con pazienza il suo nome, e quelli ridevano ancora più forte e dicevano Barbablù, e lo dicevano così forte che anche lui aveva cominciato a crederci, mentre il vino gli scaldava la pancia e gli massaggiava i piedi stanchi. Di lavori ne trovava un quarto e mezzo ogni tre giorni dispari, a due centesimi l’ora con un cane che gli ringhiava nelle orecchie e quattro calci in culo come ben servito, alla sera si ritrovava un panino in una mano e del vino fetido nell’altra, il suo dio strambo e mezzo cieco sembrava giocare a nascondino, perso lassù tra la via Lattea e la galassia di Pegaso, Barbablù lo cercava in quelle notti steso all’addiaccio, alla stazione, senza lo schifo di caldo che aveva lasciato casa a fargli compagnia ma piuttosto un freddo bastardo che pensava non potesse nemmeno esistere, un paio di coperte che una mano gentile gli aveva allungato, il marciare ritmico dei tacchi di cuoio della polizia che una sera sì e una forse lo pigliavano a calci nella schiena mentre lui era bello disteso, in panciolle nel suo angolino arredato di piscio, sopra le grate della metro, a farsi salire tra le ossa fradice il caldo delle viscere della città. Fu così che il suo vero nome, notte dopo notte, ciucca dopo sbronza, se lo dimenticò e divenne Barbablù a tutto tondo, raccattò una sveglia scassata senza vetro e con una sola lancetta a segnare perennemente le due in punto, e se la mise al collo con uno spago che tirò su da terra. La barba se la fece crescere lunga e ispida, pensava che sarebbe servita come coperta di scorta da avvolgerci lo stomaco che lievitava come una pagnotta di sesamo, stagione dopo stagione, mentre Barbablù raffinava le tecniche del vivere per strada, a quelle latitudini, tra le monete che gli lanciavano nel berrettino, i suoi sorrisi sempre più sdentati, e la lotta selvaggia per i posti migliori alla stazione, quelli che garantiscono un bel teporino, meno scarpe rubate, meno calci tra le costole. La regola principale, aveva presto compreso, era che la giornata trascorreva via liscia e persino allegra se la si bagnava di vino scadente, qualche bella litrata a condire le ore interminabili a mendicare sul marciapiede, a trascinarsi alla mensa dei frati ricchioni – come li chiamavano nel gruppetto della stazione, e Barbablù nemmeno sapeva che voleva dire ricchioni, aveva però un suono allegro come la campanella che facevano suonare quando era pronta la sbobba, sorridevano sempre, avvolti nel loro saio di stoffa grezza e dicevano “Buon giorno, cari!” quando all’alba aprivano le porte del loro ricovero per zombi che avevano chiamato “La manna dal cielo” – o a giocarsi al lotto un posto in branda in uno stanzone che era l’anticamera dei gironi infernali, spesso lasciato al varco, sorpreso nella sua infinita ingenuità di negro d’Africa, tutto sorrisi e mani grandi, piedi lunghi e pelle spessa. Appena faceva un pizzico più caldo Barbablù preferiva gli ampi spazi del Parco Centrale, sotto le belle fronde dell’ippocastano che gli ricordavano il baobab del villaggio, e alle volte lo prendeva una nostalgia così violenta che lo abbracciava fin quando non gli facevano male le mani, e allora soffocava i singhiozzi con qualche sorsata generosa e una sbirciatina tra le stelle per vedere se il Gran Bastardo si fosse, puta caso, ricordato di quel suo figlio derelitto.

Quando smise di piovere, in quel giorno a ridosso del Natale dell’anno del Signore millenovecento e tanti, Barbablù aprì l’occhio destro, si cercò con le mani il volto la pancia la sveglia i coglioni e le gambe, e si rallegrò di essere ancora tutto intero, che a quelle latitudini e a quelle temperature non è una faccenda così scontata. Fuori impazzavano le compere delle sciure, con pargoli strillanti al seguito, una sorta di mercato delle capre come fanno giù al suo paese di Baluba, ma senza lo sterco e le pozze di piscio, senza la terra, la sabbia e il vento, senza gli stracci appesi a quattro rami secchi per ripararsi dal sole insolente, qui piuttosto c’era una calca profumata di pellicce e dopobarba, cilindri per cappelli, e basette e favoriti, castagne fumanti e vin brûlé, che al sol pensiero a Barbablù colavano rivoli di acquolina, e avrebbe ammazzato per un bel tazzone caldo di vino dolce, e allora ravanò nelle tasche, tirò fuori due mozziconi bagnati, quattro monete da mezzo fiorino bucato, due biglietti usati del tramvai che sperava di rivendere come nuovi alla fiera del cretino, un rocchetto di filo di stagno per saldarsi le scarpe ai piedi, il cuore al petto e la vita alla pellaccia, un amuleto inciso nella pietra, che gli portava fortuna e prosperità e che lo faceva bestemmiare di gusto ogni volta che lo sfiorava coi polpastrelli ruvidi, e infine trovò lo spazio vuoto che aveva lasciato per le belle cose che sarebbero venute, uno spazio che si faceva più vasto ogni anno che passava, ogni chilometro che contava tra casa sua e la stazione, ogni sogno che metteva nel cassetto, uno spazio che era largo per generosità e indigenza, necessità e indolenza, e tutte quelle belle qualità che lo riempivano d’orgoglio e di fame, che gli facevano stringere i denti e tirare la cinghia, mentre intorno a lui gli stivali di cuoio ben fasciati sulle gambe magre delle giovinette di regime gli sfilavano a un centimetro dal naso, seminascosti da pacchi e pacchettini, panettoni e sciampagnini, aperitivi al caviale e cappuccino corretto al cordiale, campane di chiesa al sapor di castagnaccio e cagnolini con il vestitino di lana, tutto così carino, tutto così a modino, tutto frizzante e terribile, in un vortice che gli riempiva la testa e gli svuotava la pancia, le poche monete impegnate per il prossimo litro di rosso, un hamburger tirato su dai bidoni del fast-food, e il bisogno sempre più crescente di un miracolo dolce, come il canto antico della terra, che viene dalle anse del fiume ancestrale, risale il cuore di tenebra delle foreste, e risveglia i suoi figli intrappolati nel sonno della ragione, sulle soglie del secolo, ai margini di tutto ciò che conta e che serve, che è utile e buono.

Quando riaprì anche l’occhio sinistro, che gli era rimasto appiccicato tra le ciglia cispose, Barbablù intravide in lontananza una figura sfocata che sembrava attirare su di sé tutti i raggi possibili dell’unico sole disponibile, che si facevano spazio tra le coltri di nuvole nere, gonfie e trapunte di pioggia, mentre intorno si diffondeva una melodia a tema, un dlin dlin dlin di carillon natalizio, una musichetta allegra e suadente in minore e maggiore, un organetto di strada, ipnotico e stupido.

Barbablù si sfregò gli occhi, mentre la figurina sfocata e saltellante si avvicinava prendendo le sembianze di una piccola bambina bionda, bianca come il latte, con le gote rosse e le treccine al loro posto, qualche lentiggine sparsa qua e là come petali di rosa, due occhietti azzurro cielo, una mela renetta col sorriso a trentadue denti e un cuore grande grande. Barbablù si sfregò gli occhi una seconda volta e ci diede giù duro con la sorsata di rinforzo quando intuì che la bambina procedeva allegra e spedita sì, ma capovolta, avanzando leggera sulle sue manine svelte, e compiendo balzelli niente affatto scontati, anche mezzo metro di pura allegria, come un’antilope che sfugga dalle grinfie del leone, zigzagando, sempre laggiù a casa sua, nella savana lontana e assolata. Qui invece c’erano pozzanghere profonde come la fossa delle Marianne, rimasugli di neve fradicia, erbaccia pesta e sporca e una bimba leggiadra e spensierata che si avvicinava a lui – il re dei barboni del Niger, il Signor Barbablù della foresta – con una determinazione inequivocabile, e una vocina squillante come le trombe degli angeli del Signore, che ne celebrano la nascita ogni Santo Natale, e risuonano nel firmamento come esplosioni di stelle dorate.

La bimba a testa in giù si fermò a meno di un metro dal corpaccione disteso di Barbablù, che la fissava con gli occhi adesso sgranati, e non sapeva se essere lusingato di cotanta attenzione innocente o invece provare terrore, mentre quella se lo rimirava come un giaguaro rimira la preda ferita alle sue zampe, e ogni tanto si leccava le labbra, proprio come se stesse per azzannarlo.

E invece parlò.

“Barbablù!”, disse, “Signor Babakàr Barbablù!”, continuò altisonante e cadenzata, come se promulgasse un editto seduta stante, forte e brillante come acciaio e a tambur battente.

“Lo sa che giorno è oggi?” chiese rimettendosi in piedi in un soffio, mentre a Barbablù il cuore batteva in petto così forte che l’unica lancetta della sveglia appesa al collo cominciò a roteare all’impazzata, recuperando in un istante glie eoni che mancavano al conto, e a Babakàr Barbablù parve che la terra, al contrario, avesse smesso di vorticare e rimanesse lì sospesa, in mezzo alla tranquillità del firmamento, una sfera blu che galleggia nel vuoto nero degli abissi cosmici.

“Lo sa che giorno è oggi?” domandò di nuovo, questa volta un po’ stizzita, alzando la voce e battendo per terra la punta del piedino immacolato per sottolineare che non aveva tempo da perdere. La suola della scarpa insolentita faceva schizzare goccioloni d’acqua sporca sui pantalonacci spessi di Barbablù, che continuava a fissare il biondo confetto come farebbe un cristiano qualunque di fronte all’apparizione dorata della verità rivelata, e quindi, come da copione, spalancò la bocca fetida mettendo all’aria la dentatura stentata, strabuzzò gli occhi fuori dalle orbite e, se avesse potuto, li avrebbe fatti roteare come palle da biliardo sul panno verde del manto erboso.

Il piccolo angioletto appoggiò le mani ai fianchi leggiadri, inclinò la testolina di un micro-grado sulla destra, strinse le labbrucce per contenere lo sdegno e poi soffiò via la sua rabbia per recuperare il contegno e domandò di nuovo, al Signor Babakàr Barbablù, se avesse la più pallida idea di che giorno fosse quel giorno.

“No, madame, non lo so!” rispose lui, intuendo che quella non avrebbe concesso un’altra occasione di silenzio, e così rispose com’era stato abituato a fare giù nella terra dei Baluba, ché se la maestra interrogava si rispondeva sempre con un bel “sì, madame” quando si conosceva la risposta o “no, madame” in caso contrario, allungando al contempo i dorsi delle mani pronti a ricevere una bella nerbata di canna fatta col legno di bambù, quei giunchi nodosi ed elastici, che sibilano nell’aria prima di incidere le carni dei bambini neri, che subito le ritirano al petto con un gesto istintivo e ci soffiano sopra con gli occhioni umidi e imploranti. Così Barbablù allungò le mani verso la bimba, in attesa della giusta punizione per la sua ingiustificabile ignoranza, ma quella scoppiò in una risata argentina, tanto fresca e solare quanto umiliante per Babakàr Barbablù, che se ne stava ancora disteso, avvolto nei suoi stracci lerci e scuri e circondato da un lezzo insopportabile di cui provava una vergogna indicibile, di quelle che ti scavano dentro per trovare un nascondiglio abbastanza profondo e irraggiungibile agli occhi altrui.

“Ma cosa fai, sciocchino!”, lo rimproverò lei, con quel tono grazioso e spaventoso allo stesso tempo, il tono di chi ha la tua vita tra le dita, e può carezzarla e farla stiracchiare di piacevoli mugugni, o può spezzarla come fosse un inutile grissino.

“Non lo so che giorno è oggi, mademoiselle, forse la vigilia di Natale, o giù di lì. Sa, qui, da queste parti, le giornate sono tutte uguali, cambiano solo le stagioni, o se c’è il sole o se c’è pioggia, o se c’è luce o se fa buio” disse Barbablù. E poi si tacque.

“Sciocchino che sei…” cincischiò la bambina e poi aggiunse, tutto d’un fiato, con quell’aria tipica di chi è stufo di dover ripetere sempre la stessa ovvietà:

“Oggi è il giorno che va tutto all’incontrario, ché quel che è pieno e vuoto e quel che è vuoto è pieno, quel che brilla s’oscura e quel che è scuro, luccica. Il dolce diventa salato e il salato dolce, e ciò che è curvo si raddrizza e ciò che è dritto s’incurva. Il vecchio diventa bimbo e il fanciullo s’incanutisce” e mentre parlava si mise di nuovo sulle mani e s’allontanò, sempre continuando ad elencare i dritti che si fan storti e viceversa: “il ricco si fa povero e l’indigente s’arricchisce, il magro diventa grasso e il ciccione si fa stecco” e la voce pian piano svaniva e Babakàr rimaneva zitto a chiedersi se per caso fosse desto o se sognasse, mentre tutto intorno la vita sembrava proseguire esattamente come ricordava di averla lasciata, prima che perdesse i sensi in un mezzo sonno alcoolico, tra bambine capovolte e giornate all’incontrario.

Si alzò. Un conato violento fu il preludio di una vomitata portentosa, di quelle che liberano lo stomaco e tolgono il fiato, lasciandoti poi tremante come un cucciolo bagnato, desideroso di carezze e calore. Barbablù si asciugò la bocca con il manico del cappottone e si guardò intorno come fa il predatore quando è ferito e cerca una via d’uscita. Poi si avvicinò al muretto perimetrale che separava il giardinetto dal viale alberato, esattamente nel punto dove una notte di molti secoli prima aveva estratto un mattone e lo aveva tagliato a metà per la lunghezza e poi lo aveva reinserito nel muro creando così un’intercapedine buona per nascondere soldi e oggetti preziosi, biglie di vetro e occhi di nemico. Si assicurò che nessuno lo vedesse e con grande nonchalance estrasse il mezzo mattoncino e infilò la mano nel muretto, come se fosse la cosa più normale del mondo. Le sue ditone nere più del carbone e della fuliggine ravanarono nel pertugio come nel vano di un quattroruote stracolmo di oggetti. Rovistarono l’alto e il basso, a destra e a manca e ne uscirono vittoriose stringendo tra le punte una pallina strapazzata di banconote arrotolate, umide per le infiltrazioni di pioggia, con i bordi mangiucchiati dagli insetti, un principio di muffa verde smeraldo a ricoprire la superficie grigio topo e un odore di possibilità e giubilo così intenso che a Barbablù venne subito l’acquolina in bocca.

“Mmmhhh…”, mugugnò con quel suo vocione roco e profondo come il bassotuba di n’orchestrina swing, “qui c’è ciccia per gatti!”, e si sfregò le mani mentre non riusciva a togliere gli occhi da quel ben di dio di capitale, una fortuna così grande da farlo schizzare immediatamente nell’olimpo dei ricconi, tanto che rizzò la schiena tutto impettito, e si avviò a passo sicuro verso il droghiere di quartiere, l’unico che ancora lo faceva avvicinare al negozio, avendo il proprietario una simpatia per quelli come Barbablù, che sfidano la vita a cazzotti, ne prendono una fracco e una sporta e se la ridono con una risata da brodaglia alcoolica, contandosi i denti rimasti, tra le croste sulla pelle e i mozziconi raccattati da terra.

Barbablù allungò una banconota fresca fresca al droghiere, che lo guardò lusingato come si guarda il Cumenda col suo pellicciotto nuovo di zecca, e disse “Ciumbia, Barbablù!” e chiese “Quanti?”, indicando col dito lo scaffale dei tetrapak, e il signorotto fece segno due con la mano, sventolando le dita col sorriso di chi si gustava quell’esagerazione come una ragazzina si eccita in un pomeriggio sfrenato di acquisti, agguantò la mercanzia che nascose immediatamente sotto il paltò e sgattaiolò via come un ladro nella notte, lasciando il droghiere perplesso sull’uscio a sfregarsi le mani in un panno candido, mentre alle sue spalle gli insaccati penzolavano placidi tra forme di parmigiano da mezzo metro di raggio, grasse cosce di prosciutto, sottaceti, cetriolini e carciofini.

Barbablù raggiunse in fretta la sua alcova reale, con un paio di calci scacciò due cani randagi che si erano accoccolati sui suoi cartoni umidi e si mise a osservare il tramonto gelido che si impossessava del cielo, un mantello rosso fuoco sopra la città ancora indaffarata nelle ultime spese, il panettone e il salmone, il caviale e lo stinco di maiale, il giocattolino per il nipotino, un colpo di pettine dal barbiere, uno spruzzo di colonia, l’aperitivo veloce al bar con gli amici. Da quell’osservatorio privilegiato percepiva il fervore dei preparativi, vedeva le luci accendersi a una a una, prima le finestre dei palazzi, che illuminavano di calore i quadretti famigliari, il sempreverde addobbato a dismisura, con le palline luccicanti e i biscioni argentati della finta neve, le urla allegre dei bambini, il blu elettrico delle televisioni sempre accese, le nonne in poltrona, le madri in cucina; poi era l’ora dei lampioni, che proiettavano il loro cerchio giallo sull’asfalto nero, lo scalpiccio frenetico sul bitume bagnato, i fari delle macchine che si aprivano la loro via conica tra le brume di nebbia, i claxon impazienti. Era il respiro della città in piena attività, poco prima del dovuto riposo, che si impegnava ancora un istante per assicurarsi che fosse tutto a puntino, con le tavole imbandite, l’argenteria, i cristalli, le maioliche e i merletti.

Barbablù stappò con un morso lungo la linea tratteggiata del cartone, sputò il triangolo di tetrapak a terra e, prima di darci dentro, alzò il vino al cielo, pronunciò due bestemmie a bassa voce a mo’ di preghiera, versò un goccino-ino-ino a terra per omaggiare chi non c’era più e poi, a debita distanza da un’umanità felice e frettolosa, ingollò una bella sorsata alla facciaccia nostra. Come il liquido gli sfiorò le quattro papille gustative che gli erano rimaste intatte su quell’organo semovente e disgustoso che era la sua lingua, Barbablù capì che c’era qualcosa che non andava. Sputò in fretta quel che gli era rimasto in bocca e, come un sommelier esperto, cominciò a ciancicare tra labbra, lingua e palato per cercare il sapore nascosto, che aveva lì sulla punta, ma non riusciva a identificare. Cacciò allora mezzo naso dento lo squarcio del tetrapak ma l’olfatto lo aveva abbandonato da tempo, bruciato dal freddo, dagli eccessi e dalla progressiva corrosione del tempo che, per quelli come lui, correva a una velocità disarmante, nonostante la sveglia fissata sull’ora giusta, e che Barbablù ergeva come uno scudo contro le intemperie della vita.

Esitando quel tanto, appoggiò di nuovo le sue labbrone viola da negro avvinazzato si versò in bocca un sorso questa volta più contenuto, col preciso intento di tenerlo lì il più possibile per stimare, con esattezza inappuntabile, se il vino fosse del tutto da buttare o fosse ancora bevibile, su quel confine labile tra potabile e non potabile che, nel suo caso, era permeabile, come una frontiera d’aria stagna. Dopo un tempo non ben quantificabile, che spazia dal mezzo secondo al secolo, Barbablù, fremente di sdegno, si liberò di quel liquido immondo e, ad alta voce, sentenziò il giudizio, più sbigottito che infuriato.

“È sangue! Cristo santissimo del cuore maledetto di…” e continuò con una serie irripetibile di coloritissime imprecazioni, spropositi che in altre situazioni i suoi compagnucci di sbronze avrebbero apprezzato con applausi e pacche sulla schiena, congratulandosi per la fantasia, l’estro, la generosità e l’audacia, ma che in quel momento gli lasciavano solo l’amaro in bocca, insieme al sapore metallico e caldo del sangue. Senza perdersi troppo d’animo, e senza nemmeno darsi tante risposte alle poche domande che gli balenavano in testa, occupandola per la durata esatta di un doppio nanosecondo carpiato, afferrò il secondo cartone, lo aprì con la medesima tecnica sopraffina da scafato sommelier, si rovesciò in bocca una quantità generosa di liquido freddo e, con sconforto triplicato e rabbia rinnovata, vomitò di nuovo un fiotto di sangue freschissimo, e chi l’avesse visto avrebbe creduto, senz’altro aggiungere, che per quel relitto umano fosse arrivato il momento di rendere l’anima al demonio, tant’era il sangue che sputava, tra conati, rantoli e madonne santissime.

Non appena si riprese dallo spavento e dallo sconforto, alzò gli occhi all’orizzonte e, rassicurato da quella striscia di colore che ancora indugiava prima di lasciar completamente spazio all’oscurità della notte, raccattò quei due litri scarsi di plasma e si diresse a passo sicuro verso la drogheria di fiducia. Come da precisi calcoli astronomici, l’esercente dal cuore d’oro era ancora in bottega ad affettare, pesare, contare e incassare, e Barbablù non esitò un istante a entrare tra lo sconcerto delle signore impellicciate che abbracciarono d’istinto le loro borsette rigonfie e si fecero piccole piccole, lasciando tutto la scena a un infuriato Babakàr, che vaneggiava di vino e di sangue, di rimborso e indecenze, di denunce e questioni d’onore. Il bravo commerciante, per rassicurare la folla tutta, incluso lo sgradevolissimo intruso, prese al volo due bottiglie di Lambrusco da leccarsi i baffi, le porse senz’altro replicare a quel diavolo d’un negro, il quale, un pochettino sorpreso dal gesto immediato, ma tutto sommato soddisfatto che la sua arringa avesse sortito in fretta gli effetti desiderati, le prese in silenzio, e con gran dignità si fece strada tra le ali di ermellini e visoni impauriti, a testa alta, diretto verso una notte nera, che se lo divorò in un sol boccone.

Come raggiunse il suo cantuccio dorato, Barbablù mise mano al cavatappi, stappò una delle due bottiglie, e senza indugio ci diede dentro con sete e rabbia ingorde, impaziente di percepire il calore del nettare santo intiepidirgli le ossa e la pellaccia e farsi largo pian piano tra le pareti cerebrali, portando con sé un ottundimento pervasivo, splendido preambolo di una notte senza sogni e senza dolore. Ancora una volta però, dovette arrendersi al principio di realtà, che recita a lettere impresse nell’argento vivo della carne che nulla ti può sottrarre a ciò che ti aspetta, e che la rovina è dotata di pazienza infinita e non importa quanto tu riesca a eluderla tra una piroetta e una sbronza, ché quella prima o poi si prenderà te, i tuoi cari e i tuoi beni, e del tuo corpo sfatto ne farà un ciondolo e se lo legherà al collo come un gingillo, un articolo di bigiotteria per titillare la sua enorme vanità. Sputò di nuovo a terra liquido denso e scuro che si allargò ai suoi piedi riflettendo sulla superficie vischiosa la luce artificiale dei lampioni. Barbablù fu allora colto da rabbia e sconforto, quel tipo di furia che prende alla gola quando sembra che ogni cosa sia perduta e che non esista più parete dove sbattere il capo, porto sicuro dove fuggire o santi a cui votarsi. Quello sgomento che ci assale quando si esauriscono anche tutti i modi dire, le rime e le assonanze e resta solo un’enorme, vorace paralisi, e si avverte con estrema chiarezza d’essere diventato preda, mosca impiastricciata nella tela del ragno. Babakàr afferrò la bottiglia di lambrusco per il collo e la scaraventò contro il muro, poi, preso dall’eccitazione, afferrò anche la seconda bottiglia, e la frantumò per terra. Schegge di vetro e spruzzi di sangue si sparsero tutto intorno e anche sul suo cappottone maleodorante e Barbablù cominciò a pulirsi passando il palmo della mano dove scorgeva il luccichio del vetro o la macchia scura e umida del sangue. Batteva il paltò lurido con rassegnazione, dando delle grandi manate come se quei colpi lenti e incerti potessero raschiare via tutti gli anni sbagliati, tutti gli errori e le sconfitte, le umiliazioni, i risentimenti, il freddo e la fame e la nostalgia. A chi avesse assistito a quella scena avrebbe visto un uomo in ginocchio, che cantava una vecchia nenia africana, intento a battere e accarezzare un cappotto lurido. E mentre lisciava la lana grezza e logora con la sua manona nera, una scheggia più grossa delle altre penetrò nella carne viva, proprio al centro del palmo sinistro, dove scorre lunga e frastagliata la linea della vita. Barbablù avvertì un dolore secco, limpido e cristallino come acqua di fonte. Si guardò la mano con sorpresa e curiosità e poi estrasse il coccio largo quanto un pollice. Nel centro esatto della mano si allargava una ferita fresca, rossa e palpitante come la vagina di Fatoumatà, e si ricordò di quando lei – sarà passato un secolo – gli aveva allargato le gambe proprio davanti al naso, ridendo come una scema mentre lo invitava a darci dentro con la bocca. E Barbablù, preso dalla stessa ingordigia e proprio come se si trovasse davanti alle cosce calde di Fatù, incollò le labbrone viola al palmo della mano e cominciò a leccare e a succhiare, facendo penetrare la lingua tra le pareti calde e frementi della ferita. Chiuse gli occhi. Sulla punta delle labbra un goccia di sangue indugiava liquida e inviante. Con un gesto rapido, come un formichiere che cattura la sua preda, agguantò la goccia grassa e la inghiottì, confermando il dubbio che in quei secondi si era fatto largo nel suo cervello peloso.

Il liquido che stava suggendo come la vespa fa col polline non era sangue, il suo sangue marcio e schifoso, ma era vino, un vino raffinato e prezioso, un oro rosso che doveva provenire da vigne reali, tanto era corposo e profumato. Per averne la certezza definitiva, Barbablù diede ancora due leccate generose, di quelle che avevano fatto gridare di piacere la bella Fatoumatà giù al villaggio, e con sommo gaudio assaporò ancora una volta il piacere del vino, il sentore della frutta e dello zucchero, le note speziate, l’aroma del cioccolato. Purtroppo però, la ferita sul palmo, per quanto fosse profonda e lunga, non dispensava liquido a sufficienza per appagare la grande sete dell’omone grosso e stanco, che doveva riposare la carcassa e la pellaccia dopo una giornata tanto balorda. E per quanto si impegnasse a leccare e succhiare, non riusciva a far stillare che poche, parche gocce, che sprigionavano tutto il potenziale del vino ma che, alla fine dei conti, lo lasciavano a bocca asciutta, pazzo di voglia, con tutto quel ben di dio letteralmente a portata di mano, ma di fatto irraggiungibile.

Prima che lo sconforto e la frustrazione si impossessassero di lui, facendosi beffe ancora una volta della sua condizione da misero e tapino, un’idea geniale gli balenò nella capa altrimenti vuota, e risuonò come il gong del monaco buddista, limpido e rotondo, grasso e fecondo, proprio come il vino che aveva appena leccato in fondo a quella ferita fresca. Raccattò da terra una bella scheggia di vetro, si tirò su la manica della camiciona di flanella e girò il polso verso l’alto, così da mettere in bella mostra le vene palpitanti e succose. Con un movimento secco, dato per il lungo – ché da qualche parte nella memoria aveva conservato la vocina di un compagno di sventura che una notte particolarmente dura gli aveva rivelato il segreto del suicidio perfetto: una bacinella d’acqua calda, una lametta ben affilata, e un taglio netto sulle vene, ‘ma non di traverso, Barbablù, per il lungo, per dio, e poi su fin quasi a metà dell’avanbraccio, e vedrai come sgorga bene, Barbablù, sgorga che è una meraviglia, e non lo fermi più’ – si aprì un bello squarcio proprio come gli aveva detto quello là, e il vino cominciò a zampillare allegramente dall’arteria radiale, con spruzzate più o meno intense a seconda del battito cardiaco. Barbablù restò per qualche secondo rapito da tutta quella grazia, sorpreso dall’intensità del profumo del vino e dalla quantità generosa che aveva a disposizione tanto che, per quanto andasse indietro coi ricordi, non riuscì a scovare un momento che fosse uno di quella sua vita dannata in cui avesse potuto godere di così tanta dolcezza, nemmeno quando Fatoumatà si era offerta a lui in tutta la sua splendida giovinezza. Commosso fin quasi alle lacrime, Barbablù ringraziò quel dio nascosto, che per una volta si era fatto vivo e aveva appagato le sue preghiere. E poco importava se lo aveva fatto in quel modo così bislacco, quel che contava era il risultato, e Barbablù non intendeva sprecarne più alcuna goccia; se poi ci fosse stato un significato occulto in tutta quella sequela di eventi e visioni, lo avrebbe cercato più tardi. Così, senza indugiare oltre, Babakàr appiccicò la bocca al polso e cominciò a bere, a bere e a bere, senza sosta, senza pause, quasi senza respirare. E più beveva più si sentiva in pace, il cuore sembrava finalmente sciogliere quei nodi che lo avevano legato stretto per così tanto tempo, il dolore che lo attanagliava alle tempie parve dissolversi come neve al sole e un calore buono lo avvolse come una coperta spessa: l’abbraccio amoroso che aveva atteso da tempo e che finalmente era arrivato. Senza staccare le labbra dal polso si distese sul povero giaciglio di cartoni fradici di umidità e piscio, e scoprì che nessun letto era mai stato tanto comodo e invitante, nemmeno se avesse allungato la schiena su di un materasso di piume d’oca e avesse affondato il capo tra guanciali imbottiti di cotone e nuvole.

Il sonno eterno se lo prese proprio quando con la mente era tornato al caldo buono della sua capanna giù tra i Baluba, le sorelle ad arrostire manioca sul fuoco scoppiettante, Fatoumatà a giurargli amore eterno, mentre fuori da quell’ombra dolce il villaggio risplendeva di vita, rumorosa, caotica e febbrile.

Gli infermieri che lo raccattarono il giorno dopo alle ore due spaccate del pomeriggio del Santo Natale dell’anno millenovecento, e tanti, dopo aver confabulato giusto un po’, concordarono che era morto dissanguato. Lo sollevarono a fatica, lo adagiarono sulla barella e gli coprirono il volto con un lenzuolo. Sul viso le labbra gli si erano congelate in un sorriso indecifrabile. Al collo portava una sveglia rotta, con l’unica lancetta a segnare l’ora esatta.