PARTITURELorenzo Orazi

Lettera d'amore di uno squilibrato

PARTITURELorenzo Orazi
Lettera d'amore di uno squilibrato

Amore, chi si prodiga per svelare il tuo mistero sprofonda nel vuoto di un abisso. Un valzer di impotenza attrae chi si accompagna alla tua anima, così come chi giace al fianco del tuo corpo. La pelle che indossi è una spessa lastra di ghiaccio che da tempo immemore si forma. Chi, armato di scalpello, decidesse di scavarvi, rinverrebbe dai celesti e trasparenti interstizi le vittime che vi sono cadute. Un popolo di uomini a cui fu deliberata una giusta condanna. Si sono persi nelle profondità boschive dei tuoi capelli, dove antiche radici inciampano il passo, lunghe liane bloccano braccia e piedi. Un esercito di crocifissi appesi nell’aria umida e frondosa. A pronunciare la sentenza furono loro stessi, lo fecero a proprio danno; capo di imputazione fu la sciocca speranza che vollero cullare in un letto di anestesia.

Amore, sei lo spazio bianco di una tela che mani ingenue si adoperano a dipingere. Sorprese dall’epifania, scorgono in te la potenza. Lenta emerge la coscienza che non si tratti di altro che di superficie. Si contorcono, sono di madonne in compianto le mani che guidano i pennelli. Inutile cade su di te una goccia di colore, come inutile cadeva lo sperma sulle linee del tuo ventre, nell’incavo dell’ombelico. Infecondo, presto sarebbe essiccato in pozzanghere perlacee, prima di trovare aperta la via che conduce dal lavandino alla fogna.

Nasci come una religione; a propria immagine ti inventa l’uomo, come un dio che sorga dal vuoto e dall’insufficienza. Schiere di fedeli giacciono ai piedi del trono, con la fronte a terra implorano per una rivelazione, per un celeste dono. In fiotti simili a fiori schizza il sangue nell’aria, su altari scolpiti di fregi– si intrecciano i motivi vegetali delle ghirlande ai bucrani –, ne discendono i rivoli copiosi. Le carcasse delle bestie si accatastano alla base del marmo. Il turchino del fiume è una lontana memoria: scorre di porpora, su tutta la terra, l’ecatombe dei credenti.

Vedo una defunta coppia di buoi distesa al suolo, ancora caldi e uniti dal giogo. I primi vermi iniziano a banchettare sulla polposa, lucida superficie degli occhi, mentre da lontano li raggiunge il crocidare degli uccelli spazzini. Amore, sciamano le mosche sui nostri manti, ma i muscoli non sanno più contrarsi, né tendersi i nervi per scacciarle lontano, e il battito delle minuscole ali ci assordirebbe se non avessimo smesso di udire. Amore, qualcuno nella testa continua a sussurrarmi i vezzeggiativi che l’uno per l’altra inventavamo, i nomi con cui, nel gioco dei suoni e delle improbabili derivazioni, tentavamo di definirci. La voce non mi dà tregua. Deve avere dei lunghi elenchi a sua disposizione: li percorre facendo scorrere, su pagine ordinate alfabeticamente, una penna inclinata; di tanto in tanto si arresta, raddrizza la penna, fissa un punto al lato della colonna, dice: “Micia!”. Dimmi, dove ha scovato quelle carte? Siamo stati sbadati a lasciare incustoditi gli armadi, le librerie, il letto. Ora una sinistra compagine di traslocatori mi circondavestiti di sole canottiere, hanno ciuffi di peli che si addensano sulle spalle, se muovono le braccia un odore pungente mi fa turare il naso. Senza che io possa fermarli, riempiono la stanza degli oggetti con cui vivevamo.

Amore, un mostro mi abita il petto, e vorrei piangere infinite lacrime sui tuoi piedi di ballerina. Che ci portino con loro, che a loro ci uniscano vestiti di vento! Cada la gravità come cade una vecchia tenda. Nelle notti in cui la luna gonfia le maree, ci faremo trovare sulla spiaggia, distesi dentro occhi chiusi senza sonno. Simile a seta l’acqua si infilerà sotto ai corpi; ritirandosi, con essa scivoleremo verso orizzonti remoti. Come sarà abitare altri luoghi, puoi immaginarlo? Faremo l’invidia della rondine. In fuga dagli inverni migreranno gli uccelli, planando sopra gli oceani, stupiti guarderanno al nostro riposo. Amore, solo per un breve istante ci siamo assentati ma, tornando, abbiamo trovato chiuso il cancello. Ora, al di qua del ferro battuto, ci scintillano nell’iride i colori degli agrumi. L’arancio, il rosso, il giallo, in un miraggio ci illudono di poterne ancora spremere una goccia di succo; con la lingua ci inumidiamo le labbra, ma non sentiamo alcun sapore. Mi indichi il ramo che di inverno ti impauriva; spoglio, sembrava che con le punte attentasse al cielo. Ma oggi, dici, è primavera. La folta chioma è una nuvola scesa in terra, una zolla di cielo caduta quaggiù. Eppure, il cancello resta chiuso.