PARTITUREDavide Landoni

Solo i grilli cantano la sera

PARTITUREDavide Landoni
Solo i grilli cantano la sera

Spensi il motore e, mentre le luci dei fanali indebolivano la loro intensità fino a scomparire, abbassai le palpebre e chiusi gli occhi. E sospirai.

Nella testa avevo ancora il rumore degli pneumatici che grattavano i sassolini del parcheggio: li sentivo scricchiolare nelle orecchie, tra le mani, nello stomaco. Sfiorai il tasto di accensione della radio e si diffuse nella macchina un'urticante melodia pop. Non avevo voglia di ascoltare musica, ma l'agitazione mi impediva di pensare. "Fai attenzione a quello che desideri" fu l'ultimo verso che mi raggiunse dal gracchiante apparecchio che non cambiavo da almeno vent'anni. Sono troppo vecchio per apprezzare questa roba, pensai riportando il silenzio nell'abitacolo.

L'agriturismo galleggiava nella notte, davanti a me, un lume tremulo fra gli alberi, che fremeva tiepido quasi fosse l'unico rifugio nell'ondeggiante campagna toscana. Elenchi infiniti di fronde misuravano la distanza tra me e il resto del mondo. Il ritmico canto dei grilli e delle ultime cicale riecheggiava nel cielo privato della luna. Nello specchietto retrovisore vidi due occhi luminosi comparire nell’aria scura, bestie fameliche dal bosco. Provenivano da una vettura lungo il sentiero che avevo appena percorso. Erano lì per me, io ero lì per loro.

Adesso che l'oggetto del mio desiderio era a portata di mano, realizzai di non ricordare più quando tutto era incominciato. Lo percepivo eterno, un garbuglio scuro radicato in me da sempre. Tra poco mi sarei potuto immergere nella mia ossessione.

Vidi l’auto parcheggiare, le due figure scendere e dirigersi all'interno della struttura. Lui le offrì il braccio, lei lo accettò per evitare di scivolare con il tacco – aperto sul dorso del piede, ancorato alla caviglia da un unico laccio cosparso di brillanti - sul terreno. Non appena entrarono, iniziai a fissare compulsivamente l'orologio. Più il tempo passava più una lontana eccitazione si faceva largo in me,  un aroma sconosciuto che pretende tutti i sensi insieme.           

Da tempo non percepivo un'erezione così intensa. Forse era il malsano, forse io ero malsano.

Aspettai i dieci minuti pattuiti nella speranza che i pantaloni si sgonfiassero, quindi affrontai il parcheggio, l'ingresso del ristorante e il cameriere che mi avrebbe da lì a poco condotto al tavolo, tutto come fossi una strana creatura in grado solo di annuire, percepire un sordo fischio nelle orecchie e muoversi per inerzia in un mondo in cui era ospite.

Il margine era il mio posto.

E lì mi sedetti, solo. Non ascoltai la lista dei vini, mi limitai ad annuire e cercare con lo sguardo il loro tavolo. Lo trovai poco prima che il cameriere se ne andasse scocciato e liberasse la visuale sulla sala. Mi attendeva una cena di rigida contemplazione.

Percepivo l'ambiente avvolto da un leggero, ma leggerissimo, aroma di cannella. Pareva diffondersi sotto forma di esalazione luminosa,  polvere di ambra dispersa  nella sala. Dalla calda atmosfera sembravano esenti le gambe di lei, chiarissime e nettissime sotto il tavolo, libere del vestito, sui toni del grigio, illuminato anch’esso da una trama brillante - ben prima del ginocchio. Non erano gambe giovani, ma i segni del tempo le si addicevano come increspature sulla corteccia. Erano necessarie e misteriose. Se mi voltavo potevo vedere la coppia quasi a 180 gradi, lontani e incuranti della mia attenzione. Non c'era una candela fra loro, ma la immaginai; non ero sicuro stessero già parlando di come l'avrebbero fatto, ma lo immaginai. Nel tempo in cui mi distrassi per ordinare, lui iniziò ad accarezzarle la mano sinistra, libera da anello nuziale, mentre un fremito scosse le vertebre della donna, all'improvviso agitata. Come fosse al suo primo appuntamento dopo molto tempo. Mangiai senza sapere cosa stavo inghiottendo, e intanto mi sforzavo di intercettare la linea di tensione che dagli occhi dell'uomo non deviava dal seno della donna.

Immerso nell'afrodisiaca traiettoria mi compiacqui una volta di più delle verità cui ero giunto: il fascino di un seno risiede nel velo che lo copre, solo il nascondiglio cela l'istinto sessuale; l'atto consuma il piacere,  la mente è un’inesauribile macchina da orgasmi. Il migliore amplesso è quello non vissuto.

L'insidiosa lussuria dei miei pensieri mi aveva portato distante e quasi trasalii quandi vidi la coppia alzarsi. Me ne accorsi perché ebbi la sensazione, o la speranza, che tutti avessero rivolto lo sguardo verso di lei, seguendo il suo ancheggiare fin dove l'impertinenza di ciascuno riusciva a spingersi. Passarono proprio accanto al mio tavolo e anch'io mi unii al concerto di occhi che avrebbero voluto suonare su di lei. Nel vortice di erotica fantasia credetti che il suo volto, insicuro ed eccitato insieme, cercasse di incrociare il mio per domandarmi il permesso di fare quel che si stava accingendo a fare: condurre l'uomo fino alla stanza al piano di sopra, appositamente prenotata per l'occasione.

Era il mio momento. Non appena vidi scomparire i polpacci tremolanti della donna, chiesi il conto e abbandonai l'edificio. Le cicale erano scomparse e ad accompagnare la notte scura e densa non era rimasto che il gracchiare dei grilli. Di nuovo nel parcheggio, di nuovo un'erezione a gonfiarmi i pantaloni. Stavolta non sarebbe stata vana. Aggirai la struttura e individuai la camera al secondo piano dove avrei trovato la mia soddisfazione.

La luce era accesa, una bolla rossa e calda nell'oscurità, e le ombre della coppia già si agitavano sul soffitto. Immaginai le sagome nude, e il loro intrecciarsi - in quell'indefinita e misteriosa forma - appariva aperto a molte più possibilità di quelle concesse alla semplice carne. Era già dentro di lei? La percepii aperta e mi sentii grato per la sua generosità, eccitato dalla sua disponibilità. Che fosse racchiusa in un caldo amplesso o oscenamente coinvolta dall’incontrollabile impeto di lui, ne sentivo la sagoma ergersi a despota del mio desiderio.

Mi agitai da solo, nascosto tra i cassonetti della spazzatura, in attesa che la perversione portasse in dote il colpo di grazia. Quando si affacciarono alla finestra, offrendo la pelle nuda al muto firmamento, per prima cosa vidi lunghi ricci, turbini di un nero voluminoso e lucido. Li osservai piegarsi insieme al collo, insieme alla schiena; fremetti mentre le dita si ancoravano al davanzale; dietro la donna, lui, granitico nell'addome muscoloso, a completare l'atavica posizione. Movimenti severi e ritmici la scuotevano dall'interno e si condensavano nel seno, irrequieta appendice di un piacere proibito. Ancora ingabbiato nella biancheria in pizzo appariva grande, sproporzionato rispetto alla forma snella del corpo. Ne ero ipnotizzato.

Ripresi contatto con la realtà, ma solo per un attimo, quando l'uomo da dietro la sciolse dal peso del reggiseno e ne afferrò il contenuto, ora più libero di arrendersi alla gravità, che riempì come acqua le fessure nate tra le dita che lo stringevano. Le mie resistenze si infransero nel momento in cui la donna, girandosi, si inginocchiò ai suoi piedi. L'uomo sembrò tendere il suo profilo nelle tenebre e, mentre io rilasciavo il mio squallido piacere, sarei stato pronto a scommettere che lui stesse facendo lo stesso. Mi contorsi come un ramoscello gettato nel fuoco di un camino.           
Esausto, alzai gli occhi verso la camera e rubai l'ultima immagine alla finestra. Come incorniciato, il corpo di lei, dritto e severo, si stagliava in piedi davanti a lui, quasi ostentasse la sua nuda e gloriosa potenza. All'estremità inferiore di quello strano quadro proibito intuii il principio dei suoi lombi, un assaggio del solco che immaginai percorso da una tiepida gocciolina di sudore.

Ci avrebbe impiegato qualche minuto a scendere, ma mi diressi comunque alla macchina di corsa, come se la rapidità avrebbe potuto cancellare il peccato. Ripresi posto nell’abitacolo e ripensai. Era finalmente successo, era accaduto per davvero e ancora non realizzavo ciò che avrebbe implicato. Come una cicala avevo ceduto la notte a chi poteva fare meglio di me. Osservavo la mia vertigine sospesa nell'estasi, ignara delle ragioni profonde che l'avevano generata. Godevo della mia gioia corrotta, ne godevo come mai prima d'allora, respingendo il momento in cui l'adrenalina sarebbe calata e la realtà mi avrebbe presentato il rovescio del mio piacere.

Proprio nel momento in cui la spinta erotica iniziò a ritirarsi nel guscio come una rugosa tartaruga ferita, un messaggio illuminò lo schermo del telefono abbandonato sul sedile del passeggero, probabilmente da prima di cena.           
"Non trovo la strada di casa". Lessi e trasalii.

Provai subito a chiamare, ma il telefono del mittente era già spento. Aprii la portiera e, senza preoccuparmi di richiuderla, aggirai di nuovo la struttura e fiondai gli occhi verso il secondo piano. La finestra era chiusa, la luce spenta. Non vi erano più ombre agitate, solo corpi stesi a rilassare le membra, a lasciarsi cullare dal sonno.

Questo non potevo sopportarlo.

Irruppi nell'agriturismo con gli occhi annebbiati, il passo incerto e una mente incapace di riflettere. Percepivo la bocca muoversi, ma non sentivo i suoni che ne uscivano; agitavo le braccia, senza capire in che direzione andassero. La receptionist corse in direzione, un cameriere si avvicinò avanzando richieste che non potevo soddisfare. Lacrime e rabbia mi avevano ormai fatto buio negli occhi, ma feci in tempo a intravedere, nell'inesorabile sopraggiungere di una calca attorno a me, mentre cercavo di raggiungere disperatamente le scale, quello che immaginai essere il direttore sollevare il braccio e indicare, perdendo qualche goccia di saliva dalla bocca spalancata, l'uscita del locale.           
Mi scaraventarono fuori, confinandomi a una marginalità più profonda di quella che avevo tanto desiderato.

L'impatto con il terreno ghiaioso graffiò la livida lastra della mia furia, riportandomi alla lucidità. Avrei potuto sfruttare il momento per pentirmi, per commiserarmi, per vergognarmi, per piangere la mia miseria, invece l'unico pensiero che mi concessi fu un dubbio, lo stesso che mi avrebbe tormentato sulla strada di ritorno, lo stesso con cui mi sarei rigirato tra le lenzuola del letto del motel sulla provinciale dove alloggiavo, lo stesso che il mattino successivo, dopo non avermi fatto dormire nemmeno un minuto, avrebbe fatto sì che il mio cappuccino si raffreddasse a fronte di un fulgore intimo che tornava a premere incandescente ai confini della mia razionalità. Stremato, sdraiato nel parcheggio di un agriturismo che andava svuotandosi, nell’aria scura macchiata da qualche stella, fremevo dalla curiosità di sapere se l'uomo sconosciuto avesse rovesciato il suo piacere sul viso o sul seno di mia moglie.