PARTITUREChiara Canu

Anche le luci piangono

PARTITUREChiara Canu
Anche le luci piangono

Volevo solo la pioggia.

Ho perso il conto delle volte in cui l'ho pensato mentre con lo sguardo scorrevo le vie illuminate dai bagliori artificiali, in linea con tutto quanto di attinente a questo periodo. Ma stavolta, con una certa difficoltà, a farsi accogliere è un Natale storto e incolore. Non so quanti passi io abbia fatto per arrivare alla fine di questa forzata giornata, ancora una volta con il groppo nel petto e lo stesso identico sorriso sulla faccia, a scanso delle preoccupazioni di tutti, di chi mi guarderà e di chi mi sta attorno. Ad ascoltarlo bene, però, non è come le altre volte: è qualcosa di più esteso, come se si aggirasse fra lo stomaco e le costole per proseguire più su, fino all'altezza della gola. Cerco su internet una risposta, la classica e magra consolazione delle definizioni: nessuna parola oltre la stessa, un termine tanto comune quanto dilaniante per ogni essere umano odierno. Ancora più complesso accettare che non si tratta di alcuna malattia organica, ma solo di una mente che non smette di raggirare macerie pensanti.

Volevo la pioggia, e invece è toccato un sole che con insistenza ha illuminato la città per tutto il tempo. Hanno insistito tanto per farmi andare a questa passeggiata domenicale, e con altrettanta insistenza ho acconsentito. "Non isolarti", è stata la mia motivazione di fondo, ripetuta all'infinito per l'intero giorno precedente, ed era invece il mio solo bisogno, silente e presente: stare in disparte nel tacito richiamo delle mie ombre. Forse ieri non avrei dovuto dormire per così tante ore, tornare a casa dopo pranzo e fiondarmi sul letto con Dove Season nelle orecchie, al ritmo di un vuoto indicibile. Fatto sta che per questa giornata la forza è stata doppia: ho indossato la gonna che non mettevo da un anno, insieme al nuovo paio di collant imbottiti perché le mie gambe non percepissero alcun sentore di freddo, nonostante la costanza del sole.

Tanta gente, le luci, i negozi aperti e gli stand pronti al consumismo sfrenato di chi non si vuole ridurre all'ultimo minuto. Io che cammino, lei che si aggrappa al mio braccio per reggersi meglio e sembra sentire quello che io non voglio per un secondo di più. Ha notato, forse ha capito. Invecchia e non finisce di intuire. Non voglio che capisca, non tutto.

Mi attraversa la gente, l'allegria negli sguardi, il senso dei doni da fare e ricordare, e ancora una volta le luci, sospese in alto a tratteggiare il cielo terso. Cammino e mi sento stonata. Cammino e penso: voglio solo la pioggia.

Mentre ancora mi tiene per un braccio, ripenso a quando fui io a tenerle forte la mano quel pomeriggio alla piscina. Era il mio primo giorno di nuoto e di nuotare non ero ancora in grado. Gli altri bambini sguazzavano già in quel liquido dal fondale blu, le loro gambe sbattevano alternativamente formando una scia di spuma bianca che schizzava ovunque. Per non parlare dei corpi, così sciolti e leggeri a vederli. Come si fa a non temere una cosa senza pelle? Li ho osservati per l'intera ora di attività, paralizzata dalle mie stesse gambe. E la mia mano, perennemente dentro la sua, e la sua voce che mi ripete un coraggio che non ho. "Non aver paura", mi diceva. "Invece ce l'ho, non vedi?", le rispondevo con gli occhi. Nemmeno le braccia bianche dell'istruttrice sapevano di conforto: solo il corpo di mia madre lì accanto poteva riuscirvi.

Non ho fatto che rimanere così, in piedi sul bordo vasca a guardar passare le vite degli altri. Non sapevo che sarebbe stato lo stesso anche al di là di quei minuscoli anni, e che la mia immobilità assumeva la forma di un possibile favore per chiunque e di un costo altissimo per me. A quanto ammonta il prezzo del rischio? Che cosa costa buttarsi senza tremare? Ho camminato a lungo nel tempo senza conoscere una risposta. Il passo s'è fatto sempre più cauto, laddove qualsiasi accelerazione avrebbe significato attacco, distruzione, forse morte. Non m'ero accorta di quanto sia invece il silenzio la più estenuante di tutte le azioni: restare immobili in un rispetto tutto d'un pezzo affinché la tua autenticità non sia per l'altro un disturbo, un fastidio da scacciare, e da scacciare sei tu assieme al tuo intero essere. Questo è stato morire, per me, ogni giorno, ogni ora, nel lento scorrimento di anni in crescita senza ascoltarsi, perdendo tutto, perdendo tempo, occasioni, novità. Te. Ma si può essere incoerenti persino quando ci s'accorge di una simile realtà in una giornata luminosa.

Tutto questo risale alla mente proprio quando lei lascia il mio braccio per concentrarsi su uno di quegli stand in vista, con le luci che si intensificano all'intensificarsi dell'oscurità. La osservo da questa breve distanza. E' brava a indovinare i vuoti, un po' meno a trattenerli. Mi domando come abbia fatto anche poche ore fa, a pranzo, quando l'ho accompagnata al bagno di quel ristorante e a un certo momento ha scovato le mie indicibilità. S'è abbassata i pantaloni e sul bordo del cesso m'ha detto: "Sei così bloccata". Mi sono voltata verso lo specchio fingendo di sentirmi qualcuno. Tornata al tavolo, il led del telefono ha riacciuffato la mia attenzione, e ancora una volta, quel groppo esteso all'altezza della gola. Ho scorto il messaggio dallo schermo per poi ignorarlo con un disinteresse ricercato. Che vuoi che sia, sono i soliti tentativi di entrare dove da tempo hai chiuso a chiave. Anche se è facile ignorare, anche se chi vuole entrare non è tanto interessante da pensarci su, il meccanismo è sempre irritante: desiderare di esser visti e fare di tutto per nascondersi. Quale peggior condanna per il non vivere? Allora ho cominciato a fare come quella volta alla piscina: ho guardato la gente agli altri tavoli, fino a quando gli occhi hanno resistito a vedere persino quello che non c'è. Una coppia più in fondo mangia e ride, ride e mangia, lui accenna a prenderle la mano e lei lo lascia fare, e no, non sei tu che mi afferri, non sono io che ti scanso. Una bambina corre per la sala, si guarda intorno curiosa e ridente, chiunque la schiva per un pelo, e no, non sono io che corro verso il mondo, non sono io che lo attraverso così contenta. Un tizio passa di fronte al nostro tavolo, con una mano si tocca i capelli. Trattengo lo sguardo sul suo viso per un secondo di troppo, il tanto che basta per capire che no, non ti assomiglia, e anche se fosse non mi muoverei di un solo passo. E' tutto questo tentativo di ritrovare a far sì che un vuoto si confonda con la vita, fino a spezzarti in due senza più capire dove sia il tuo dove.

Riapro quel messaggio, lo rileggo e infine lo cancello. Non voglio ingressi, elogi, riconoscimenti, il soffio caldo di un conforto. Voglio che mi lasci questa mano, che una volta per tutte possa sprofondare verso la vetta più alta del dolore, affinché io riesca a dirlo, raccontarlo, calpestarlo.

Finalmente torna nel punto in cui sono rimasta ad attenderla. I nostri passi si congiungono  sul finire del viale, al di fuori di una folla sempre meno sopportabile. Faccio in modo che non mi riafferri, in una stanchezza chiassosa per tutti questi altri e per questo silenzio tutto mio. Invece, quasi d'improvviso, la sua mano torna su di me.

"Guarda", mi dice con una punta di entusiasmo. "Guarda là, com'è illuminato".

A fatica obbedisco e fingo di aver visto.

"Bellissime", sussurro, e non so se stavolta mi ha sentita, se davvero ha visto la scena in cui di fretta afferro il foulard per coprirmi gli occhi, perché da questi possa non venir fuori nulla e che nulla di tutto questo possa esser scoperto dai suoi occhi. Invece fallisco e mi tradisco, o forse è un favore. Tutto ora si muove diversamente, in un modo che non distrugge né uccide ma libera, eccome se libera.

"Perché piangi?", mi domanda.

"Niente", dico. "E' solo la luce. Questa luce così forte".