PARTITURESilvia Lenzini

Racconto di Natale

PARTITURESilvia Lenzini
Racconto di Natale

Aurelio percorre col bambino la via del centro. Luca è silenzioso, di sicuro non si sta divertendo, cammina a testa bassa. E ha ragione - cosa ci fanno lì? Festoni di lampadine illuminano la negligenza, la superficialità della città: questa strada su cui camminano, non proprio sporca ma nemmeno pulita, poche carte per terra e molti mozziconi calpestati; e poi gomme da masticare a perdita d’occhio, che trasformano il lastricato in un nastro a pois. E queste case, costruzioni del dopoguerra squadrate e anonime, gli intonaci sbertucciati, così incoerenti in mezzo ai quartieri medievali. E poca gente in giro.

“Senti, babbo. Ma se Babbo Natale venisse ora? Ora che noi non siamo a casa?”

“Ma no, arriverà stanotte. Stai tranquillo. Finché c’è luce non si farà vedere.”

Stringe forte la mano di Luca, perché non gli sfuggano quelle dita piccole, talmente fredde che sembrano bagnate. Se lui e suo figlio potessero volare, se volassero ora sui tetti, e osservassero dall’alto questa parte della città, cosa vedrebbero? Qualcosa di ridicolo, una brutta cicatrice inadatta a ricucire, eppure inghirlandata di luci in questo pomeriggio azzurro di finta pace.

“Ehi, Luca”.

Luca piega la testa all’indietro, lo guarda.

“Cosa”.

“Sei stanco?”

“No. Sì, un pochino”.

Aurelio lo abbraccia: arriveranno fino alla piazza della stazione, dove dovrebbe esserci un albero di Natale altissimo, e le panchine per riposare.

L’albero c’è, infatti. Alla base ha un diametro di almeno quattro metri, e sarà alto quindici - come quindici Luca, più o meno.

Sotto l’albero, l’amministrazione comunale ha piazzato alcuni grandi pacchi. Sono scatoloni vuoti, rivestiti di carta rossa e decorati con nastri glitterati. Luca si divincola dalla mano del padre, si avvicina ai pacchi, li tocca, scuotendoli cerca di indovinarne il contenuto.

“Per chi sono questi regali?”

Cosa dovrebbe rispondere. Per qualcuno che stanotte tornerà qui con una fiaccola e darà fuoco a tutto, ecco quale sarebbe la cosa giusta da fare.

Tutta questa storia, questa insulsa pagliacciata, non sa proprio come gestirla col bambino. Vorrebbe sedersi qualche minuto, ma le panchine sono state eliminate dalla piazza allo scopo di scoraggiare i pusher. Che spacciano lo stesso, ma almeno stanno scomodi. In effetti è proibito sedersi ovunque, anche sui gradini delle chiese e delle case, sui muretti e sulle recinzioni. Anche sulle spallette dell’Arno. Una città in piedi, è diventata.

Si accende una sigaretta, aspira a occhi chiusi. Un treno che sta entrando in stazione fischia con forza.

“Babbo”, Luca lo tira per una manica , “ho capito per chi sono”.

“I regali? Dimmelo allora”.

“Sono per il vecchio che dorme”.

“Quale vecchio?”

La manina di Luca si solleva a indicare un punto sotto l’albero.

Si intravede qualcosa, forse scarpe. Sono suole di scarpe, sì, e contengono piedi. Sopra, due caviglie gonfie, livide, un paio di pantalonacci, un pastrano marrone, un volto vecchio, capelli lunghi grigi.

Potrebbe anche dormire.

I pendolari che sciamano sulla piazza, appena arrivati col treno, non sembrano accorgersi di loro, accucciati sotto l’albero.

“Babbo, c’è puzzo qui. E c’è pieno di mosche”.

Ecco cos’era quel ronzio ininterrotto. Aurelio lo mette a fuoco solo adesso, eppure l’ha percepito da subito, da quando sono arrivati lì: sono le mosche, allora. Che poi, d’inverno, le mosche. Ma a pensarci bene, nei cessi pubblici le mosche ci stanno tutto l’anno: devono essere proprio quelle - le mosche che di solito popolano i bagni della stazione, richiamate qui da questo odore anche peggiore.

“Babbo, lo svegliamo?”

Aurelio si alza, si volta verso le persone che aspettano l’autobus: non ci sono medici tra questa gente infreddolita, tra questi visi da badante stanca con la tinta dei capelli fatta in casa, tra queste falangi noccolute. Alcuni adesso gli vanno incontro, finalmente quella loro posizione accucciata è stata notata. Credono che abbia bisogno di aiuto, ma lui fa cenno di no - No, non sono io - e indica il punto dove giace l’uomo sdraiato sotto le fronde, ma quelli vedono solo il bambino e gli si avvicinano - Cos’hai, bimbo, ti senti male?

Poi capiscono, si tappano naso e bocca con la mano.

Nel silenzio, il ronzio è potente.

Tra i piumini e i cappotti immobili si muove adesso un camice azzurro. Dev’essere il custode dei bagni pubblici. Arriva borbottando qualcosa, che lui non crede ai miracoli né ai detersivi, ma alle mosche sì, e se le mosche l’hanno abbandonato un motivo deve esserci. Si fa largo spintonando il gruppetto - Eh, lo sapevo. Se segui le mosche, prima o poi trovi la merda. Sapeste quanti ne ho visti, di questi qui. Sudici ubriaconi che vengono a vomitarmi nel bagno e non mi lasciano un centesimo - e con le dita magre scuote l’uomo, che reagisce come un grosso sacco pieno di spazzatura: ballonzola quel tanto che basta per fare sollevare nugoli di insetti, e dopo un attimo è di nuovo inerte.

Riprova, il custode, più forte. Le mosche infastidite si allontanano di qualche metro.

“È morto. Bisogna chiamare la polizia”.

“Come, morto?”, dice Luca. “Che vuol dire”.

Lo sapeva, Aurelio, che sarebbero arrivati a questo punto, proprio a questa precisa domanda.

“Vuol dire che è volato in cielo".

“Che dici, babbo, volato. Se eccolo lì”.

Arrivano alcuni autobus, molti dei presenti corrono via e salgono sulla vettura che li porterà finalmente a casa - frettolosi più di prima, impazienti di raccontare. Pochi restano, per pena o curiosità.

Aurelio si alza, un male cane alle ginocchia. Se almeno ci fosse la possibilità di sedersi, potrebbe prendere Luca in braccio, su una panchina, e inventare una storia per quel visino che è diventato così pallido - abbracciare la sua paura, fare diventare anch’essa parte della storia: forse potrebbe farcela.

Il custode dei bagni pubblici dice che ha finito il turno, se ne torna a casa.

C’è poca luce ormai. Gli storni si esibiscono nel loro saluto alla giornata, nuvole multiformi alte sopra i tetti delle case.

“Luca, vieni a vedere! Guarda che belli!”.

Il bambino esce da sotto l’albero, punta il naso al cielo.

“Babbo, ma stanno scendendo!”

“Macché”.

Invece sì, i nastri neri e formicolanti diventano più grandi, cambiano forma.

Alcuni storni si avvicinano in picchiata, atterrano. Saltellano verso il morto. Una decina di uccelli si tuffa in mezzo alle mosche, in preda alla frenesia. Ne arrivano altri: zampettano sulla pancia dell’uomo, si azzuffano.

Aurelio ha il cuore che pompa troppo forte, gli si ripercuote nelle orecchie. Afferra con la mano sudata quella piccola di Luca.

“Dai, andiamo a casa che è tardi”.

Luca resiste, non si muove. Sta ancora guardando il cielo.

Merli neri, lucidi, prendono a volteggiare sopra di loro, si aggiungono agli storni. Il corpo del vecchio è ormai una mangiatoia. I becchi gialli dei merli si muovono a scatti nella semi oscurità. Nuvole di mosche tentano di volare via, ma altri uccelletti, più piccoli, le acciuffano in volo: sono pettirossi, capinere, a decine. Un usignolo già gorgheggia, sazio, tra le fronde.

Il cadavere non si vede più, ricoperto dalla testa ai piedi da un frullio ininterrotto di ali: non un drappo funebre, ma vita vibrante, volo.

È volo.

“Vedi, questo intendevo”.

“Cosa?”

“Sono venuti a prenderlo, lo portano su in cielo. Dopo cena se vuoi torneremo, e vedrai che quell’uomo non ci sarà più”.

Il bambino sgrana gli occhi. Ha le guance rosse per l’emozione, ora.

“Prometti?”

“Promessa solenne”.

Aurelio prende di nuovo Luca per mano. Si allontana da lì, il braccio che dondola su e giù accordandosi ai saltelli del bimbo. La serata è limpida, l’aria azzurra di pace malgrado le mosche