Donna

Donna

La mia chitarra è rossa, con una macchia di caffelatte sotto la buca che sembra una nuvola che sembra un’isola.

A casa dorme al centro della stanza, dritta, sul suo cavalletto. È una ballerina in prima posizione. Guarda la tivù, ma mi dà le spalle mentre mangio. Ha i fianchi di una madre.

Non conosce più una canzone.

Quando ero piccola, la mia chitarra era molto più sottile e lunga e senza tasti e senza corde. Ombrelloni chiusi, utensili da giardino, viti e bulloni, poggiati al muro bianco del garage, se ne stavano seri ad ascoltarmi.

Quando ero un po’ meno piccola, la mia chitarra era classica. Marrone chiaro, come le sedie di legno, imbottite di paglia, che io e il mio insegnante mettevamo sotto il lampadario principale della stanza, in fondo al salone, per la lezione.

Leggio. Pedale. Solfeggio. Chitarra muta.

Leggere le note. Conoscere le note. Leggere le pause. Conoscere le pause. Leggere il pentagramma. Conoscere il pentagramma.

Chiave di Sol.

La-a-a-a.

«La lezione è finita», mi diceva dopo un’ora. E io sapevo suonare sempre meno.

Dopo un anno, conoscevo la musica. Dopo un anno, la musica che conoscevo l’avevo fatta ascoltare al mio pubblico. L’ombrellone cadde.

Il cacciavite a croce mi chiese che musica fosse Re-e-e-e. «Dura quattro, quattro movimenti, senza pausa. Mi-i Mi-i, sono due note e durano entrambe due», avevo provato a spiegargli.

«E ti piace?»

«Mi serve.»

«A cosa?»

«Ancora non lo so.»

Dopo tre anni, a fine lezione, dissi a quell’insegnante che non volevo più continuare.

«Sicura?»

Io annuii e lui cancellò il mio nome dalla lista dei suoi alunni.

La chitarra, appesa al muro della mia stanza, restò a fissarmi per qualche anno, fino a che, un giorno, rientrata da scuola, non la trovai più.

«Se n’è andata», dissi a mia madre.

«Non la usavi più. È logico», mi rispose.

Fissando la parete vuota, piansi.

La mia chitarra rossa era un manichino senza sguardo nel negozio a pochi metri da casa di Donna. La guardavo mentre correvo da lei, che ancora mi voleva e che mi diceva: «Fai presto. Voglio baciarti».

La sogno spesso. Con le corde allentate. Con le corde rotte. Spaccate al centro. Come un ventre scucito, scuoiato. Senza corde è piccola, una bambina.

Ha il manico di legno grande che ci metto sopra le dita, un po’ larghe, un po’ strette, e mi guarda come lei che se n’è andata e che, quando era nuda accanto a me, mi diceva: «Cosa mi fai?»

La mia chitarra rossa è una mia più grande pancia. Prende aria, vuole aria.

È affamata. Mi dice di affondare su di lei, mi dice di scavare su di lei.

Scivolo sul suo manico. Cigola che sembra lei prima di addormentarsi.

È stanca. Prende la mia mano. Non per suonare. Non per raccontare. Non per sognare.

Per dormire.

È in pieno sonno. Si abbandona alla mia mano. Cerca una nota. Quella di un solo dito. Quella gonfia. Quella dura. Quella che se la tocchi la buca si apre. La buca.

La nota. La buca. La buca. La buca profonda. La buca. La nota.

«Dormi.»

Dormo.

La mia chitarra è rossa, con una macchia di caffellatte sotto la buca che sembra una nuvola che sembra un’isola che sembra lei che se n’è andata e che mi diceva che non mi avrebbe mai lasciata.

Ora che abbiamo voglia di parlare, io e lei abbiamo un nuovo insegnate.

Abbiamo litigato. L’ho rotta mentre la suonavo. L’ho afferrata e l’ho sbattuta e l’ho sbattuta e l’ho sbattuta sulla ringhiera del terrazzo. Mi accarezzava mentre guardavo fuori. C’ero io che la picchiavo.

«L’ho appena distrutta», ho detto al mio insegnante.

«Chi?»

«La chitarra.»

Non capisce. Mi guarda e lo so che sta pensando: che è impossibile. Che non mi sono mai mossa, che la chitarra è qui, su di me.

Lui non capisce.