DIESISLuigi De Rosa

Propriocezione

DIESISLuigi De Rosa
Propriocezione

È pericoloso uscire fuori nella neve fredda e bianca, quando nessuno guarda. Abbandonare gli esiti pratici della casa. La terra delle mura dorata dalla lampada ondeggiante. 

È estenuante seguire la sorte che chiama attraverso lo spioncino.

Il rischio è che la notte ti sorprenda

(sussurrano animali umidi di brina sulle piume)

alle spalle, gridando il tuo nome.

Il rischio è ritrovarsi di colpo con la schiena a terra, il fiato interrotto dall’urto, il gelo che assorbe la pelle.

E la molle biologia che non salva dall’inanimato.

Verresti trascinato via da mani invisibili, verso l’orizzonte di luce fioca della città

(scheletriche fabbriche sullo sfondo, animi l’aria col fiato)

e spinto di forza contro un cassonetto sporco.

L’urto sarebbe forte, metallico. Vibrerebbe a lungo nell’aria.

Stordito, rideresti per l’assurdità. Strofineresti le mani una sull’altra, sempre più bianche, compiendo il gesto più umano che esista. Abbasseresti lo sguardo debole sui vestiti bagnati e sui peli delle braccia striati di ghiaccio, tremeresti allora come un agnello sacrificale.

Il panico ti spingerebbe a cercare una soluzione, e scopriresti che non c’è niente di meglio del metodo scientifico.

Useresti la Legge: un corpo caldo trasmette calore a un corpo freddo.

L’entropia si propaga senza sosta.

Illuminato dalla conoscenza ti alzeresti deciso a cercare un corpo caldo. Ma chi? Ma dove?

Ecco che se tutto va bene potrebbe passare una bella ragazza proprio davanti a te.

Trascinerebbe smagrita i piedi con forza nella neve, aprendosi piccoli varchi. La sua testa emetterebbe Luce come un faro: fasci bianchi partirebbero dalle pupille e dalla bocca e dal naso, sciogliendo la neve davanti a lei.

La osserveresti con speranza infantile. Lontano, verso nord, altre persone porterebbero sicuramente il loro peso attraverso la distesa bianca, perché non si è mai davvero soli. 

L’umanità fuori sarebbe rarefatta e lamentosa.

La ragazza si allontanerebbe, ma non gradendo la prospettiva di morire assiderato la raggiungeresti chiamandola con forza, facendo in modo che si volti verso di te.

La Luce ti colpirebbe la faccia. Un attimo drammatico. Ti riscopriresti bambino, quando bastava toccare qualunque cosa con la bocca per essere felice.

Scaveresti quindi di fretta nei suoi vestiti, aprendo l’eskimo nero e sollevando il maglione verde scuro.

La collana dorata a forma di piuma sarebbe la cerniera: la tireresti giù e la ragazza si aprirebbe come un sacco a pelo.

Dentro sarebbe calda e pulsante, ma anche metallica. Un perfetto meccanismo a orologeria biologica.

Si affloscerebbe come un lenzuolo e riusciresti appena in tempo a tenerla in piedi.

La indosseresti come una pelliccia, assaporando il tocco bollente degli organi e del sangue.

La indosseresti. Tutta questa è solo un’eventualità.

E lei ticchetterebbe su di te. I suoi flussi continuerebbero a muoversi lenti, pulsanti, sfiorandoti la cute. Ogni denso umore utile solo al tuo sostentamento. 

Il senso di colpa sarebbe lontano, perché sostituito dal legame.

E io ti perderei.

Credimi, non c’è niente fuori che non ti trasformerebbe in un mostro.

Niente che non ti darebbe il voltastomaco, o le lacrime.

Non c’è niente che di colpo non cambierebbe forma, sorprendendo il tuo debole cuore.

Non toccarmi la mano.

Non toccarmi la mano.

È inutile cercare di liberarsi, quando della libertà non si sa che farsene.

Il sacco a pelo che cerchi, sono io. Non vedi?

Toccati le mani.

Toccati le labbra.

Sfiorati la pelle.

Leccati le braccia.

Quella, sono io.