Gan-Eden

Gan-Eden

“It may be we shall touch the Happy Isles...”

             A.Tennyson, Ulysses

 

 

 

Ricordi quanto a lungo ne parlammo? No, ti prego, non aggiungere altro!

Non ho dimenticato una sola parola di ciò che dicesti. Mi impressionava la tua sapienza ma la tua erudizione mi indispone, lo sai. È tanta, troppa. Umilia più te che la esibisci del tuo ascoltatore che la subisce, inerme.

Citasti a memoria il Genesi (Plantaverat autem Dominus Deus paradisum voluptatis a principio...),  le Sententiae di Pietro Lombardo (...et in alto situs...), Ambrogio e il suo locus amoenus. Patristica e Scolastica come se piovesse. Agostino, Tommaso, Tertulliano, Isidoro da Siviglia, Lattanzio, Iacopo da Varagine, Gregorio di Tours. Ne conoscevi addirittura le mappe, da Cosma Indicopleuste fino a quella di Hereford.

Mi scandisti, parola per parola, Il viaggio di tre santi monaci  quindi passammo a Dante e lì recitasti, piuttosto bene tra l’altro, senza dimenticare neppure una virgola, i canti del Purgatorio a iniziare dal ventottesimo. Se non ti avessi fisicamente fermato avresti proseguito chissà fino a quando. Menzionasti - pedantemente, perdonami –  lo Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais. Tornasti poi a Esiodo, a Virgilio, non la finivi più! Apocalissi varie e Visiones, da Giacobbe in poi almeno dieci ne citasti! Giovanni Damasceno, Beda, Strabone, Pietro Comestore, Ugo di Flavigny... a quel punto senza neanche rispettare una logica spaziotemporale. Pregai perché un intervento, divino magari, ti rendesse muto.

Cosa mi importa, in fondo, di sapere che Tommaso nella Summa Theologica sostiene... o  che il sogno degli Orti delle Esperidi... o ancora ... basta ti prego, basta! Per carità… Io… io… mi accontento di sapere molto di meno ma di più fondamentale. Se esiste ne avrei voluto le coordinate, che mi fosse indicata la strada, o il modo. Che qualcuno mi avesse condotto per mano.

 

Poi, vedi, le più impreviste fortune capitano a chi non se le merita. Proprio a me, per esempio. A me che non ci avrei mai creduto se… a me che, a quel punto, appariva sempre e soltanto, più concreto che mai, l’inferno.

A me che non so nulla.

So a malapena chi sia Tommaso, già dirti in che secolo sia vissuto mi imbarazza, cosa ha lasciato scritto poi, non saprei davvero.

Io sapevo altre cose.

Sapevo, so, cosa è rimasto.

Solo un’immagine, sperduta in una mente disfatta, che il passare degli anni stempera in un grigio indistinto. Se anche fossi un grande pittore non la saprei più ritrarre, incapace come sono a ricordare le linee del volto, a identificare il timbro della voce, lo scroscio delle  risate, la sommessa melodia delle lacrime.

A me è capitato, dunque.

Come a Borges, che ha visto el Aleph.

Ma non sono certo in grado di raccontarlo come ha fatto lui, quando mai ne fossi capace!  Non so, non posso, non voglio neppure tentare di imitare quel gigante, quel genio sconfinato.

Il grande Borges!

Grande, grandissimo, ma a volte un po’ pedante anche lui, come te - guarda che onore  ti concedo!- con la sua estenuata erudizione, il suo sapere enciclopedico, le sue infinite citazioni, vere o presunte tali, irritanti a volte, pur se inventate.

Troppo, troppo.

Ma torniamo a noi.

Mi spiegasti che quasi tutte le tradizioni lo collocano in alto, su una montagna.

A me è bastata una collinetta.

Borges al contrario, per vedere el Aleph è dovuto scendere in cantina, al buio, con la paura di essere prigioniero di un pazzo, col terrore di essere ucciso. Fissando il diciannovesimo gradino della scala sulla quale aveva dovuto abbassarsi.

Io invece, meschino, banalmente sono salito. 

Mi sono accontentato della modesta elevazione sopra il Laghetto, e il sole mi accecava.

Lo avrai già immaginato, era il cinque di agosto. Era cominciato male, agosto. Pioveva.

Poi, il cinque, nel tardo pomeriggio, la pioggia era cessata. Umidità soffocante però.

Ma la luce era incredibile, sembrava provenire da altri cieli.

Erano passate le otto, un tramonto lento, da brividi. Il sole, rosso, il sangue di un agnello sacrificale, si frantumava in miliardi di schegge sulle vetrate del grattacielo, fondale del lago, che agiva come un immenso catarifrangente.

Avevo percorso tutto il viale America, poi, attraversando il ponte, ero passato al di là del lago, su, verso il “disco volante” di Nervi e Piacentini.

Sudavo.

Mi era tutto estraneo, il quartiere, i luoghi dove avevo vissuto così a lungo, e così intensamente. Niente era più come allora.

Come il resto d’altronde,  come tutta la vita stessa che più non riconoscevo e nella quale mi trovavo per caso, spossato, spaesato, ai bordi, straniero. I giorni erano scorsi, le cose andate come l’acqua che vorremmo trattenere fra le dita, con una velocità esasperata, che non aveva concesso il tempo, non dico di capire, ma neanche di adattarsi. No, impossibile, troppo rapido il cambiamento. Che mi aveva però fatto comprendere ciò che adesso avevo perduto per sempre.

Prima di farsi morire aveva distrutto tutte le sue fotografie. Quelle invece dove era insieme ad  altri non le aveva distrutte ma aveva provveduto, meticolosamente, a ritagliarle, ad asportarne il suo viso, il suo corpo, dove appariva per intero. Una specie di collage alla rovescia.

Poi le consuete mattine, le sere, come se tutto procedesse, come se niente fosse.

Fino al trenta gennaio, quello centrale dei giorni della merla.

Freddo, ma non quanto dice la tradizione. Cupo sì, invece. Uno di quei giorni in cui stai male anche se non c’è un motivo, o magari è solo che non la conosci ancora la ragione di quel malessere.

La sua angoscia febbricitante era allo stremo, mascherata però da una calma che volli credere una rassegnata ricerca di normalità, il tentativo di uscire dalla schiavitù della forsennata genialità e dell’impotenza, della corrotta follia e delle scelte scellerate, delle piccole e grandi depravate miserie, dei sentieri tortuosi del vizio di una mente che non si abitava più. Maestra nel soffrire, e nel far soffrire.  E invece no. Niente di tutto questo. Era soltanto l’esaltata ma realissima, straziante convinzione che non ci fosse più alcuna strada percorribile. Come al solito non avevo capito niente.

Quando a sera - ero ancora al lavoro - giunse, come un diluvio, come un terremoto, come la sedia elettrica, la notizia (fu Ermanno a trovarla, a telefonarmi), nel dolore inesprimibile intricato già dal rimorso, lastricato di rimpianto, di non fatto e non detto, mi resi conto di averlo già saputo, di averlo sempre saputo, temuto, celato a me  stesso, rimosso.

Adesso era avvenuto, come qualcosa che racchiude in sé la necessità di accadere, l’ineluttabilità di un destino già scritto, della volontà superiore di Ananke. Nella quale però mi spettava comunque una parte di responsabilità, di colpa sarebbe più giusto dire. E quella parte, purtroppo, non era la minore.

Da quel giorno, vago. Cieco, sordo, muto. Stupìto, instupidito.

Vago. Cammino. Passeggio più che altro.

In luoghi che non sono più miei, dove giungo forestiero, migrante, dove non c’è più niente di lei e nemmeno di me. Dove mi illudo di ritrovare, non so, qualcosa come dimenticata per sbaglio, qualcosa che il cambiamento abbia stranamente trascurato lasciandola lì in un angolo, forse destinata alla mia incoscienza, al mio dissennato coraggio, se poi di coraggio  possa trattarsi quello di tornare in un posto che non c’è più. Dove non si può ritornare perché non si ricorda più di come ci si era, una volta, arrivati.

Erano cambiati i negozi, i bar, la farmacia, l’edicola, i cartelli stradali, le insegne, i manifesti pubblicitari. Pure gli alberi, alcuni erano cresciuti tanto, altri non c’erano più, tagliati, caduti, morti comunque. E la gente: non un viso conosciuto, nessun cenno amichevole, molti troppo giovani perché potessero ricordare. Loro erano loro, si conoscevano, si salutavano incontrandosi. Io ero solo.

E se per caso qualcuno mi guardava, era con il sospetto con cui si osserva un elemento estraneo, perturbante.

Sudavo.

Sudavo dunque e salivo, su verso l’immenso disco-astronave che brillava dell’ultima luce riflessa. Non dimenticherò mai il fulgore di quel momento. Noi non vediamo la luce, è la luce però che ci fa vedere le cose. A volte anche quelle che non ci sono, celate alla banale luminosità del giorno.

Ma quella non era una luce normale.

Ero arrivato su in cima, quella cima davvero modesta, eppure mi sembrava di essere nel punto più alto del mondo. L’aria era purissima, tale e quale a quella che respirai in cima ad alte montagne. Una brezza leggera, fresca adesso, mi ristorava e agitava le fronde che pareva cantassero.

Credei di udire l’usignolo. Anche Colombo lo udì quando approdò alla sua isola.

La salita mi aveva affaticato, anzi, affaticato lo ero già, ancora prima di iniziare.

Sedetti sull’erba rasata di una vasta aiuola, la sentii umida, piacevolmente umida. Mi sdraiai. Poco mancava che mi addormentassi.

Poi accadde come tutto accade, all’improvviso.

Attraverso le palpebre abbassate intuii qualcosa che mi destò completamente, un bagliore, un lampo coi colori dell’arcobaleno. Aprii gli occhi. All’inizio mi parve soltanto l’ultimo riverbero dell’astro, riflesso dalle vetrate del disco. Allora vidi.

Vidi un incommensurabile caleidoscopio comporre le immagini mai immaginate, i colori mai creduti possibili, mai pensati (provate a pensare un colore che non esiste). Vidi tutto.

Vidi un asse smisurato, infinito, d’oro, svettare dal centro del disco, su, su, fino a sparire fra le stelle imperiture, in cima all’universo. Vidi le strade che scendono dalla collina, due da un versante e due dall’altro, trasformarsi nei fiumi nutriti dalle fontane che a cascatelle sgorgano in quel luogo di delizie. Vidi il sogno di un ritorno, verso ere lontane, prima che il tempo si mettesse in moto. Quando Adamo lavorava al solco ed Eva al fuso. E  prima ancora, quando gli dei camminarono sulla terra. Vidi cose, suoni, voci che cantavano in coro. Vidi e seppi cos’era ciò che vedevo, poiché lo avevo già conosciuto.

Vidi la Felicità. Di cui scoprii la forma perfetta e i tempi impossibili. La Gioia, di cui una volta avevo avuto la mia razione senza riconoscerla, senza avere la capacità di gustarla.

E l’Amore. Vidi, sentii, compresi, fui compreso dall’Amore. Quella particella elementare, quel quanto di luce che aveva un volto, delle fattezze, un sembiante che ora si definiva in un cielo impossibile per come era brillante, e ora si dissolveva in un tempio di mille nuvole che parevano polvere d’oro. Sapevo che tutto era lì, lì dentro, in quel momento, tutto insieme, tutta la bellezza, tutto lo stupore, tutto ciò che era stato, tutti i giorni, tutte le ore, tutti gli attimi. Il mistero svelato.

E tanti nuovi misteri che si autocreavano perché si potesse continuare. E su tutto, quelle linee incorniciavano di perfezione l’immagine incontaminata. Le fattezze essenziali di un’apparizione che finalmente compresi essere sacra.

Agnosco veteris vestigia flammae…

Bagnai i piedi in Leté a dimenticare il dolore, il deturpante rimorso, il rimpianto, la desolata nostalgia.

Bagnai i piedi in Eunoé a ricordare per sempre tutto il bello, il bene, tutta quella felicità, tutto il candore aurorale di quei tratti che fremevano, e continueranno a fremere in eterno, struggenti dentro di me, ardenti come il fiammeggiante trionfo di quel tramonto benedetto. 

Accecanti, incandescenti. Come la visione scintillante, terribile e ineffabile, del Paradiso Terrestre.

Quella scena, sebbene l’opacità degli anni l’abbia velata, ancora mi tormenta.

                       

a  Niki (5 agosto 1973 - 30 gennaio 2009)

                                                                                                 in memoriam

 

 

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