Luce

Le persiane della camera sono ancora chiuse, dalla porta aperta della cucina intravedo il chiarore del giorno.

Non so quanto ho dormito, non sempre sono connessa con il mondo, ho imparato in questi ultimi mesi a regolare il mio orologio interno con l’intensità della luce.

Il profumo del caffè mi stuzzica le narici, cerco di incamerarlo e con lui la ritualità che porta con sé. Abbracciare la tazza con le mani per assorbirne meglio il calore. Osservare il liquido biondo mescolarsi allo zucchero, lasciando intravedere sul fondo la parte scura e corposa. Assaporare la schiuma scioglievole sulle labbra, mentre il calore invade dolcemente il palato e la lingua rapisce le ultime gocce di crema. A piccoli sorsi, per godere più a lungo di quella sensazione. E infine raccogliere con il cucchiaino ogni traccia lasciata nella tazzina, perché nulla sia sprecato, leccandolo con golosità. 

 

Di colpo tutto svanisce, lasciando l’odore della notte.

Helen sta stirando, osservo la sua sagoma: le spalle curve, i capelli raccolti, l’aria stanca. Lo vedo anche da qua, lei cerca di nasconderlo, ma so che sta morendo dentro.

Vorrei avere la forza di alzarmi per avvicinarmi a lei silenziosamente. Abbracciarla da dietro, la mia roccia, così alta e solida. Cullarmi nel calore del suo corpo accogliente. Ascoltare il suo respiro e farlo mio. Baciarle le dita, i polsi, gli incavi delle braccia e poi su fino a sfiorare il morbido seno. Lei si vergogna, dice che non è più bella come una volta. Io invece la trovo bellissima. Profuma di casa e io non sono mai riuscita a saziarmi di lei. Scendo giù lentamente, accarezzo la pancia, la bacio, la lecco, la succhio, voglio ogni cosa di lei. Si lamenta, si contorce, divisa tra voglia e pudore. Non le do tregua, la tocco, lei trema. Gioco con i suoi ricci, le sfioro la clitoride piano, come piace a lei. Ansima. Lecco. Annuso. La bagno, si bagna, mi sussurra parole nella sua lingua meravigliosa che non capisco ma che mi abbraccia. Continuo implacabile in un gioco tra dentro e fuori. Si contorce, insisto fino a sentirla implorare, questa volta in italiano. Si dimena, la blocco e la mordo proprio lì. E lei viene, ansimando, urlando e io mi lascio inondare da lei.

 

Il campanello mi riporta ad oggi, sono le 9.50, l’infermiere del mattino arriva sempre dieci minuti prima. Si ferma a parlare con Helen e io lo odio. Vedo i suoi occhi cercare le morbide forme di lei. La sfiora con ogni pretesto e io lo odio. Cazzo se lo odio. Lei si imbarazza, è timida e introversa, un agnello in mezzo ai lupi e prima o poi qualcuno la sbranerà. E io rimarrò a guardare inerme.

“Buongiorno Anna” mi saluta l’infermiere faccia di culo. “Hai passato una buona nottata?”

Lo guardo, non posso fare altro ferma in questo letto da mesi. 

Armeggia con fiale e sacche trasparenti, veleno che mi inietterà tra poco. Helen lo segue, mi accarezza il dorso della mano. Muovo appena le dita, il nostro codice, ti amo, e lei stringe forte la mia mano, anche io. Questo ci è rimasto, null’altro. 

Eppure lei è qua, presente, nonostante la stanchezza mi sorride sempre, mi bacia le palpebre, mi sfiora le labbra. Vorrei poter aprire la mia bocca e accogliere la sua lingua, il suo sapore.

Di tutto quello che ho perso questo è quello che mi manca di più.

“Ecco fatto, Anna. Fra un po’ dovresti sentirti meglio. Elena ti posso parlare un momento?” Le prende un braccio e la porta di là.

Lasciala stare! Non portarmi via l’unica ragione di vita, bastardo.

Li vedo in cucina, sagome contornate di luce vitale. La testa china entrambi, lei per il dolore, lui per esserle più vicino. Helen si porta una mano al collo, lo fa sempre quando è preoccupata. Lui le dice qualcosa, vedo le spalle tremare, sta piangendo. La mia amata.

Lui le accarezza la schiena, piccoli movimenti circolari di conforto, è un bravo uomo e forse potrebbe ridarle il sorriso. 

Quanto egoismo c’è nella mia gelosia? 

Questo pensiero mi tortura, la amo, è sempre stato il mio sole gentile, la mia rugiada, il mio tutto. È questo l’amore? Far soffrire chi si ama?

Perché è questo che sto facendo. La tengo attaccata a me nella mia malattia, nel mio essere inutile che sono diventata. La mente che corre in un corpo che non esiste più. Solo un involucro martoriato e infermo.

L’infermiere se ne è andato e io mi beo della figura di Helen che appare e scompare nello spicchio di porta che mi collega a lei. Questa luce che si porta sempre addosso sta svanendo risucchiata dal mio buio. Lei non se ne accorge immersa nella mia cura, io invece lo vedo. Vedo le piccole rughe che si stanno facendo strada sul suo bellissimo volto, il passo rallentato, qualche filo bianco nei capelli che una volta portava sciolti e ora raccoglie in una crocchia sulla nuca. L’unico vezzo sono alcune ciocche che si ribellano alla costrizione e si muovono libere.

 

È la prima cosa di lei che ho notato quando ci siamo conosciute. Stava chiacchierando con un mio amico e il suo corpo danzava su una musica bellissima che io non conoscevo, mentre i suoi capelli oscillavano insieme a lei, in un gioco di luci che mi ammaliava.

Si è girata e mi ha sorriso.

“Why are you so angry?”

È stata la prima domanda che mi ha fatto, così senza preamboli.

 

Non lo sapevo nemmeno io, ero sempre stata arrabbiata. Io da sola contro il mondo, sempre alla ricerca di qualcosa che non raggiungevo mai.

Poi l’ho guardata e ho capito. 

“Vorrei essere come te”.

Lei ha gettato indietro la testa e ha riso, una risata liberatoria, poi si è bloccata rimanendo in silenzio qualche minuto.

“No, non devi volerlo, c’è il buio dentro di me”.

Io vedevo solo luce.

Da quel momento ci siamo cercate, trovate, lasciate e incontrate di nuovo, fino a quando è diventato naturale fermarci insieme, nello stesso posto, nella stessa vita.

Il ventiquattro giugno di qualche anno fa è arrivata la sentenza senza via di uscita.

Ho cercato di allontanarla, non volevo la sua pietà, non volevo niente da lei, perché io non sarei più stata in grado di ricambiare. 

Lei invece è rimasta, caparbia; non mi ha mai lasciato, neanche quando le cose si sono fatte più difficili e io la ringrazio di questo ogni giorno.

 

L'infermiere torna nel pomeriggio, è lo stesso della mattina, strano, non capita mai. Lo prendo come un segno, lui saprà aiutare Helen.

Li vedo avvicinarsi insieme, circondati dalla luce, che filtra dalla porta aperta, dentro questa stanza buia.

Helen mi prende la mano, come sempre, ed io le faccio il segnale, lo avevamo concordato quando ancora ero padrona del mio corpo. Glielo avevo ripetuto innumerevoli volte, perché non dimenticasse.

Non l’ha fatto. 

Si irrigidisce, gli occhi umidi di lacrime che ormai non scendono più. Scuote leggermente la testa, un movimento quasi impercettibile, ma io la conosco. Ci guardiamo e vedo la paura, il dolore, la stanchezza.

Mi abbraccia e mi bacia incurante di quello che ci circonda. Singhiozza forte come una bambina sussurrando: ti prego. Ti prego.

Non piangere, le dicono i miei occhi, ti amo, vorrei urlare.

Guardo l’infermiere, lui annuisce, ha capito.

La prende delicatamente per le spalle e l’accompagna in cucina. Lei non fa resistenza, non ne ha più la forza.

Dalla porta vedo ombre muoversi, sento parole sussurrate, rumori di stoviglie. 

Il profumo del caffè torna a riempire la stanza e finalmente piango anche io.

Piango per me e per lei, piango perché so che le mancherò e si sentirà persa senza di me, piango perché tornerà a splendere di luce e io non potrò nutrirmene, piango perché so che è la cosa giusta da fare, piango perché la amo e non ho altra scelta.