PARTITURENoemi Stabile

Io e lei

PARTITURENoemi Stabile
Io e lei

I

È risaputo che si scriva per non piangere, anche se nessuno lo ammette.

Le parole sul foglio bianco prendono il posto delle lacrime.

Io non ho bisogno di piangere perché, se anche lo facessi, le lacrime si confonderebbero con l’acqua in cui già vivo.

Già, vivevo e vivo in acqua in una delle città più belle del mondo.

Potrete ben capire che non sono un essere come voi e non lo sono stata fino a quando non è arrivata lei.

La prima volta che la vidi aveva i capelli non molto lunghi, bagnati, e ciuffetti ribelli le cadevano sul viso. Correva sotto la pioggia, forse era in ritardo. I suoi passi avanzavano veloci e iniziai a seguirla trascinata da una corrente e mi accorsi di averlo fatto solo quando mi schiantai sul muro di un ponticello. 

Lei ci era passata su, dirigendosi verso l’altra parte della città ma io non ero così veloce da potere starle dietro e mi aggrappai alla banchina. Mi starete immaginando come una sirena che, spuntando solo con la testa, guarda incuriosita; ma no.

Passava e ripassava, tutti i giorni almeno due volte al giorno. Forse era quella la strada che faceva per andare a lavoro, per tornare a casa o, chissà, per raggiungere un’amica.

Aveva i capelli scuri, gli occhiali e una corporatura un po’ esile.

Un giorno si appoggiò alla staccionata del ponticello per riposarsi mentre fumava una sigaretta.

Non  ebbi bisogno di nascondermi perché sapevo che lì, sotto ai suoi occhi, non mi avrebbe vista.

Da così vicino notai le lunghe dita - forse da pianista, pensai - e poi anche le gambe, non molto lunghe ma perfettamente connesse ai fianchi morbidi e sinuosi.

Non che io avessi avuto l’intenzione di guardarle le gambe e i fianchi, non mi fraintendete: mentre guardavo le sue mani, una zanzara – di cui io mi accorsi, data la mia piccolezza - le punse la coscia attraverso i jeans e per questo le sue dita passarono dai fianchi per entrare nella tasca.

Mi persi talmente che quasi rischiai di fuggire quando l’acqua fu falciata da qualcosa di terribilmente fastidioso. Qualunque cosa fosse non mi interessava, non mi sarei mossa da lì fino a quando non se ne sarebbe andata.

Dopo un po’ andò via e io mollai la presa.

L’indomani però fui ancora più fortunata perché lei tornò e passeggiò tranquilla lungo tutta la banchina. Finalmente percorsi con lei quello che per le vostre misure sarebbe circa un chilometro. Fui felicissima di nuotare al suo fianco anche se lei, ovviamente, non si accorse di me. Mi piace pensare però che quando per un attimo guardò nell’acqua, fu perché si sentiva osservata e non per specchiarsi.

In ogni caso ne approfittai per accarezzare il suo riflesso.

Lei sorrise; chissà forse pensava a qualcosa di bello o il sole le aveva invaso gli occhi facendole fare una smorfia che a me era parso un sorriso. Quando la accarezzai mi accorsi che non era - come direste, voi? Bella? - già, non era bella ma c’era qualcosa in quel viso da umana che non avevo mai visto prima; qualcosa in quell’incedere incerto ma coraggioso e in quel modo tutto suo di alzare una delle estremità della bocca quando era in procinto di pensare. Quella smorfia in particolare, mi piaceva tantissimo.

Divenne un bisogno, non potevo più farne a meno.

Ogni giorno l’aspettavo con l’ansia e il terrore che potesse non presentarsi ma lei veniva sempre.

Andò avanti cosi per due lunghi mesi nei quali poche volte mancò di passare. Non saprei dire in quali giorni, poichéch nessun umano si siede a raccontarmi le cose e quindi non ho più memoria di come li chiamate.

Fu però un trauma accorgermi che un giorno le mie solite e stupide paure divennero reali.

Non passò. Nemmeno il giorno dopo e nemmeno quello dopo ancora.

Chiesi alle onde ma non seppero dirmi nulla del perché ci fossero così pochi umani in giro. Si stavano forse estinguendo? Proprio ora?

Una notte decisi, ormai preoccupatissima, di chiedere alla Luna, pur sapendo che mi avrebbe redarguita sugli esseri umani. Mi disse che c’era in atto un morbo, “come già è successo” aggiunse, ma io non capii - e poi mi redarguì come avevo previsto: “Ma a noi non deve interessare. Apparteniamo a un’altra consapevolezza che non può mescolarsi con la loro”.

Le chiesi il perché ma non ebbi risposta e sparì dietro un palazzo. Stava per arrivare il Sole, ma lui era troppo antipatico per parlare di questo genere di cose.

Dovevo saperne di più. E se si fosse ammalata? E se avese avuto un incidente? Pregai la Madre dell’acqua con tutte le forze e lo feci talmente forte che un giorno, quando il sole era ancora alto nel cielo, lei passò.

Non guardò l’acqua, era di fretta come al solito. Portava pesanti buste, parlava al telefono ma aveva qualcosa che le copriva metà del viso.

Cosa significava? Cos’era? Stava male?

La seguii preoccupata e le sentii dire che aveva deciso di scendere il mercoledì solo per le cose necessarie.

Mi dissi che quindi “mercoledì” doveva essere il nome di un giorno e proprio di quello che stavamo vivendo.

Contai sette giorni e infatti passò di nuovo. 

Bene, avevo capito il meccanismo.

 

II

Quasi ogni notte chiedevo alla Luna cosa stesse combinando questo morbo. 

Tentai di informarmi il più possibile sugli umani fino a quando lei, spazientita, mi disse: “Vuoi per caso diventare umana e rinnegare la tua natura?”.

“È possibile?” chiesi interessata, ma la vidi impallidire ancora più del normale e mi corressi; “Non che io voglia. Sono solo curiosa”.

“Sì” mi disse, “ma rischieresti di non tornare più indietro e di modificare le leggi del Tempo e dello Spazio”.

E adesso cosa c’entravano il Tempo e lo Spazio? Non sapevo come si potesse parlare con loro, non erano come la Luna!

Mi feci coraggio e poco prima che sparisse, così che non avrebbe potuto sgridarmi, le chiesi: “E se volessi diventare umana come si fa?”.

Mentre calava, urlò in modo piuttosto minaccioso tanto che le acque si agitarono per un attimo: “Prova anche solo a toccare la pelle di un umano e ti farò sparire io!”.

Troppo buona la Luna, in fondo.

Decisi. Avrei toccato la pelle del primo umano disponibile prendendolo “in prestito”. Uomo, donna, giovane o vecchio? 

“Meglio donna e giovane - pensai - o non si fiderà”.  

Passava una barca e anche una donna. Mi aggrappai al remo e questo mi lanciò dritta in aria fino a farmi atterrare sulla guancia della donna. Avevo calcolato tutto alla perfezione.

“Ehi, stia più attento!” urlò lei al barcaiolo. “Mi scusi Signò!” rispose lui.

Queste sono le ultime parole che ricordo. So solo che poi mi risvegliai su una panchina con un cane che mi fissava.

“Signora, tutto bene?” mi chiese un barcaiolo di passaggio. Mi guardai le mani, mi specchiai nell’acqua e sì, aveva funzionato. ERO UMANA!

Guardai l’uomo ancora intento a fissarmi e risposi: “Che giorno è? Che ore sono?”. 

Lui mi guardò stranito “…Mercoledì e sono le 12.30”.

Per tutte le onde -pensai - Mercoledì!

Fra poco avrei potuto parlarle, per la prima volta.   

 

Le ore passarono e non vi dico in quanti guai rischiai di cacciarmi! 

Non avevo idea che gli umani avessero bisogni fisiologici, anzi lo sapevo ma non credevo fossero così repellenti e… strani. E poi a un certo punto una cosa nel mezzo fra la testa e le parti che usate per i vostri bisogni iniziò a brontolare e faceva un rumore tale che credevo che gli altri lo sentissero. Solo dopo un po’ ho visto un bambino passare con una pizzetta e ho capito di dover “mangiare”. Non l’avevo mai fatto e non avevo nemmeno mai comprato una pizzetta né toccato i soldi.

Effettivamente se avessi saputo che sarebbe stato così difficile ci avrei pensato su un paio di volte prima di farmi lanciare dal remo.

Insomma, è stato difficile; ma verso le cinque o poco più tardi ogni sforzo, ogni languorino, ogni bisogno fu messo a tacere. 

Ero seduta sulla panchina e finalmente la vidi arrivare da lontano. Correva come al solito e sempre con questa cosa sulla faccia che avevo scoperto chiamarsi mascherina e che la signora del bar mi aveva costretto a indossare. Per fortuna era in borsa o non avrei saputo come recuperarne una.

Lei mi passò davanti e per la prima volta sentii il suo odore.

Somigliava a quello dell’aria in quei rari giorni in cui non passano barche a motore o in cui i camini e i tubi che popolano i vostri tetti non cacciano fumi strani e maleodoranti.

Era un profumo fresco, di primavera.

Presa dalla smania, iniziai a seguirla.


Dopo un po’ però notai che si girava a guardarmi insistentemente e capii che forse le stavo mettendo paura: mi fermai con lei, in fila per non so cosa, e d’un tratto le chiesi: “Mi sa dire che ore sono?”.

Lei mi guardò male, come se le avessi detto qualcosa di terribile; poi mi disse: “Le diciotto”.

La sua voce era musica celestiale. Niente a che vedere con quei carretti sonanti che passano ogni tanto né con tutte le musiche che ho sentito alle vostre feste di piazza.

Quando uscì dall’edificio, le chiesi se potevo camminare con lei fino a un certo punto. Un po’ spazientita ma con gentilezza mi disse: “… sì, ma non è del posto? Non ha una casa o una famiglia da cui tornare?”.

“No, qui no. Non sono di queste parti. Sono in viaggio per alcuni giorni, perciò sono sola”.

Mentre passeggiavamo lei continuò a parlarmi pur tenendosi a debita distanza.

Mi disse “è per il virus” e capii o almeno in quel momento pensai di aver capito.

Avvertivo una sensazione strana agli occhi, erano pieni di acqua, credo, ed era come se volessero scoppiare.

Lei si girò a guardarmi e fermandosi mi chiese perché piangessi.

Non avevo idea di cosa significasse quella parola e non risposi; dai miei occhi sgorgavano sottili rigagnoli. Non ebbi il tempo di pensare a una risposta che lei mi passò un fazzoletto tenendolo solo per un capo e mi disse: “Conosco una persona che potrebbe darle un posto in cui dormire. Una stanza. Certo non è una suite ma almeno io sono di fronte e per qualsiasi cosa può bussare”.

Un colpo di fortuna, pensai. 

Mi asciugai gli occhi, accettai e ripresi a seguirla.

Arrivammo in un palazzo piccolo, stretto ma molto alto. Le case erano una vicina all’altra, attaccate nelle strade anguste.

La seguii su per una scala finché si fermò a una porta.

“Perfetto. Allora ricordi che… scusi, qual è il suo nome?” mi chiese.

“Luna” dissi di getto.

“Va bene, Luna, ricorda: secondo piano. Signora Tormento” e decisa bussò a quello che poi imparai essere un campanello.

La signora mi diede le chiavi della porta proprio di fronte la sua e io feci per aprire lanciandomi in un indovina-indovinello su come funzionano questi pezzi di ferro dalla forma strana.

Lei mi vide in difficoltà e mi sfilò le chiavi dalle mani e, lentamente anche se sconcertata, mi mostrò il meccanismo. Imparai subito e aprii la porta.

“Ok, allora io vado, se hai bisogno di qualcosa puoi bussarmi qui” disse avvicinandosi a una porta e aprendola.

“Sì, certo. Un attimo, ma tu come ti chiami?” chiesi io.

“Arianna, piacere” e mi diede la mano per poi ritrarla subito e guardarla come se fosse sul punto di prendere fuoco.  

III

Passai tutto il tempo nuda a girare per l’appartamento e a guardarmi allo specchio, curiosissima di quel corpo che sembrava funzionare come una macchina. Avevo sempre desiderato vederne uno da così vicino.

Avevo gli occhi azzurri, i capelli castani alle spalle e la pelle molto chiara. Ero alta e formosa ma non troppo. Non sembravo chissà quanto difettata anzi ero carina. La pelle del viso quando facevo finta di sorridere si arricciava e quando facevo altre espressioni cambiava.

Mi misi a fare smorfie allo specchio per ore ed era sera inoltrata quando sentii un suono provenire dalla porta. Girai l’aggeggio e mi ritrovai davanti Lei.

Bellissima, con una camicia azzurra e un pantalone scuro che le stava benissimo.

Improvvisamente sentii una strana sensazione tra le gambe ma non era quella giallognola del pomeriggio.

Era una sensazione… morbida.

Lei aveva le mani in tasca e mi guardava sorridente come se aspettasse che le dicessi qualcosa e quindi le dissi: “Ciao”.

Lei mi guardò un attimo stranita poi scoppiò a ridere e mentre si passava le mani tra i capelli lisci come l’acqua mi disse: “Sei strana. Non in senso negativo, non ti offendere. In ogni caso, volevo chiederti se hai da mangiare”.

Le risposi di no e mi propose di seguirla, “almeno mangi qualcosa, non puoi digiunare”, “avevo pensato non avessi nulla e mi sono preoccupata”, “carino l’appartamento, no? Non male per essere un’improvvisata”, “di dove sei?”…

Parlava tantissimo e non si fermava un attimo. Mi faceva domande a raffica e non riuscivo nemmeno a pensare delle risposte. Ero incantata da lei e, come stregata, in automatico avevo preso le chiavi dal tavolo, chiuso la porta e l’avevo seguita in casa sua. Lei aveva chiuso la porta alle sue spalle e mi aveva fatto segno di seguirla in cucina.

Era una casa carina, con molti quadri strani e odorava tantissimo di primavera come lei ma in cucina c’erano altri odori.

“Ho cucinato delle patate e del pollo, non è molto ma io non mangio tantissimo anche se forse tu sarai affamata”.

Mangiammo insieme, sedute allo stesso tavolo e mi sembrava tutto così irreale.

In una giornata ero diventata umana (una bella umana), avevo  fatto una marea di cose nuove, avevo conosciuto lei e, come se non bastasse, le stavo a pochi centimetri di distanza.

Mi fece provare una cosa che chiamò birra e mi scoprii amante di questa bibita.

“È alcolica, non esagerare o finirai per ubriacarti” e mi spiegò cosa significasse la parola alcolica.

Mi guardava stupita e io mi rendevo conto di quanto fosse incuriosita, spiazzata dal mio non conoscere le cose, e io la guardavo innamorata.

Allungai la mano per toccare il suo braccio. Mi serviva sentire il contatto con la sua pelle e capire che era vera, viva.

Si fermò a guardare le mie dita che le accarezzavano il braccio e piano, sorridendo, mi disse: “Sei lesbica?”.

“Cosa?” chiesi senza smettere di toccarle il braccio.

“Ti piacciono le donne?”.

“Sì, certo” risposi senza ombra di dubbio. Che domanda era? “A te?”.

“Sì… ma non sono mai stata con una sconosciuta”.

“Non sono una sconosciuta. Conosci il mio nome, sai che sono in viaggio e non sono del posto”.

“Ti sembra abbastanza?” scoppiò in una risata e le guance le si arrossarono. 

Forse era la birra o almeno così mi disse.

Passammo in salotto a guardare “la tv” e io sgranai gli occhi a questo strano quadro da cui uscivano voci, musiche e immagini. Ero rimasta alla radio e agli strumenti musicali ma questa mi era nuova. Tentai di non saltare e di non sembrare troppo strana e me ne stavo lì assorta con gli occhi  sgranati a fissare il quadro animato.

Le immagini cambiavano d'improvviso ma dopo poco si fecero fisse; o meglio le persone si muovevano ma era lo stesso tipo di immagine.

“Ti dispiace?” mi disse.

“Cosa?” chiesi senza guardarla. Ero incantata dalle immagini e sentii di nuovo quella sensazione lì sotto. Di fatto abbassai la testa e guardai nella direzione della sensazione.

Lei rise, io la guardai e poi indicai la tv.

“Sì, sesso” rispose lei sorridente.

Collegai tutto; di questo sapevo. Ne avevo sentito parlare, e più volte nelle barchette ferme di notte ero stata a guardare questa cosa che facevano gli umani. Forse sapevo anche riprodurla e spontaneamente dissi: “Lo so fare”.

“Certo, ttutti lo sanno fare… o almeno imparano” mi rispose con uno sguardo strano.

Due secondi non bastarono e iniziammo a baciarci.

Non ricordo bene chi cominciò, forse lei ma io inaspettatamente me la cavavo davvero bene. Erano serviti, anni e anni a guardare i barcaioli di notte.

La sensazione lì, fra le gambe, si fece più intensa e a quanto pare a lei sembrava piacere e anche a me piaceva lei.

Quel profumo mi inebriava tanto che non pensavo nemmeno più alla televisione.

Ci sono umani di cui non sai nulla ma ti basta conoscere il loro viso, il modo in cui parlano e sorridono per innamorartene. 

Facemmo sesso e mentre le sue mani si affaccendavano sul mio corpo e le mie sul e nel suo, nella mia mente si affastellavano pensieri, ricordi e scene di cose che sembravano vissute e capii che forse la donna di cui mi ero appropriata, quelle sensazioni le aveva già provate.

Cazzo (già, avevo imparato nuove parole da lei), avevo preso in prestito il corpo di una persona!

Me ne resi conto improvvisamente.

Per quanto tempo? Come sarei tornata indietro? Quando? Sarei potuta tornare indietro?

Non volevo perché le sue mani erano così calde e il suo corpo anche. Sembrava vibrare con il mio, allo stesso tempo, e il respiro sembrava mancare e sentivo un qualcosa battere forte nel petto tanto che lei ci appoggiò su una mano. Lei respirava veloce e io anche. Cosa succedeva? Stavamo morendo?

Non voglio tornare in acqua, non voglio! 

Stavo morendo, ne ero sicura, e stava morendo anche lei ma improvvisamente sentii un forte tremito e quella sensazione di dipartita sparì.

La guardai. 

Lei mi guardò sorridendo e affannando.

“Credevo stessimo per morire”.

“Questo si chiama morire di piacere, la ‘petite mort’ dicono i francesi. Forse sì, è un po’ come morire ma molto meglio, non credi?” mi disse accarezzandomi la schiena.

Non sapevo cosa significasse morire ma se quello che si provava morendo era questo allora “mi piacerebbe morire tutti i giorni”, le dissi facendola scoppiare in una risata.

Lei rideva, si agitava mentre le ero ancora addosso e io pensavo che non è giusto appropriarsi indebitamente del corpo di qualcuno. Se la sua famiglia la stava cercando? E se l’avessero trovata? Cosa sarebbe successo? Mi serviva avere un corpo e ora capivo cosa significasse avercelo.

Responsabilità fisiche, fisiologiche ma non solo. Amore, affetti, persone, carne, pelle, sorrisi … erano tutte responsabilità. Non puoi prenderti la briga di avere un corpo senza incaricarti delle conseguenze.

Io sapevo cosa fossero le responsabilità anche prima di essere umana. Non nasco sola ma in gruppo e il gruppo prevede responsabilità ma noi non abbiamo pelle, non abbiamo sorrisi né lacrime e nemmeno una vera e propria famiglia anzi alcune volte c’è chi si stacca da noi o semplicemente spruzza via e noi quasi non ce ne accorgiamo. Non abbiamo religione e non sappiamo cosa siano il bene e il male; e chi lo sa è solo perché vive da migliaia e migliaia di anni come la Luna, il Sole e pochi altri che io conosco eppure non se ne interessano. “Non è importante per noi” dicono.

“Lacrime” disse lei che mi guardava, indicando di nuovo i rigagnoli.

“Lacrime” ripetei io. Ecco cos’erano. Una responsabilità, anche quelle.

“Ho fatto o detto qualcosa di male?” chiese Lei.

Ecco, il bene e il male per voi contano e anche tanto. Hanno un peso, entrambi.

Le feci segno di no con la testa e lei si alzò. Allora le presi la mano di scatto.

“Perché vai via?”.

“Non vado via. Devo andare al bagno” e si allontanò.

IV

Passammo la notte insieme e per la prima volta dormii in un letto. Con un essere umano.

In realtà io non dormii per niente. Fui troppo impegnata a godermi il letto morbido e lei, che poi mi scoprì sveglia e decise di farlo di nuovo nel bel mezzo della notte.

Ovviamente non mi rifiutai. Non lo avrei mai fatto, soprattutto non sapendo cosa ne sarebbe stato di me nei giorni a venire.

Ormai avevo capito un po’ i meccanismi e quindi verso le sei del mattino, mentre lei dormiva, scesi al bar quasi sotto casa a comprare i croissant. Pagare e maneggiare quelli che voi chiamate “soldi” è davvero un’emozione. Ti fanno sentire “autorizzato” a entrare in qualsiasi posto senza essere guardato come una qualcosa da tirar via con una scopa (e io ne so qualcosa!). Così come avere un corpo. Non so perché ma a voi viene naturale portarvi dietro questa macchina così perfetta, tanto da non rendervi conto di quanto siete fortunati. Nessuno di voi ha mai provato l’ansia di dover prendere in prestito un corpo che non è suo. L’ansia di dovergli inevitabilmente provocare dei danni anche solo cambiando le sue abitudini. Tutti problemi che io per prima non mi ero mai posta.

Mentre guardavo la signora armeggiare con i croissant che non poteva più toccare, pensavo a se un giorno la mente di questa donna di cui mi ero impadronita avesse ricordato queste scene come un qualcosa di già vissuto, pur senza ricordare dove né quando né perché. Pensavo a se le stessi togliendo la possibilità di ricordare o riconoscere delle persone o dei luoghi che magari prima conosceva. E le mie di memorie sarebbero rimaste stampate nel suo cervello?

Nel fare la strada a ritroso, mi imbattei in un palo della luce con un foglio attaccato su, che quasi volava via a causa del venticello leggero del mattino.

Lo girai e fui sconvolta nel vedere che sopra c’era la mia faccia. Senza mascherina.

Staccai il foglio e lo nascosi in borsa. Entrai in casa di Arianna affannando e mi chiusi in bagno per appendere il foglio accanto allo specchio. 

Cercavano questa donna scomparsa il giorno prima ed ero proprio io.

Sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa ma credevo che almeno un paio di giorni avrei potuto passarli con lei.

Uscii dal bagno e, dopo aver fatto a brandelli il foglio, mi rimisi a letto con i croissant sulla pancia.

Decisi di non svegliarla, avrei aspettato e nel frattempo mi sarei stampata in testa ogni minimo particolare del suo viso così che qualsiasi cosa fosse successa, non l’avrei mai più dimenticata. 

Almeno non facilmente.

Avrei dovuto lasciare un biglietto, uscire da casa sua, pagare la signora Tormento e trovare un modo per far sì che tutto tornasse come prima ma come avrei potuto rinunciare a quel corpo e a quell’anima che tanto avevo desiderato? E se ne fossi morta? E se all’improvviso come altri del mio gruppo fossi spruzzata via, non avrei più potuto nemmeno ricordarla o vederla passare? 

Lei si svegliò e mi sorprese appoggiata a un braccio, sul fianco, a fissarla.

Mi disse che ero un po’ inquietante ma poi vide la colazione e ne rise. “Sei strana ma grazie per le brioche”.

V

Trascorsero alcuni giorni e decisi di non dare più peso ad alcuna delle preoccupazioni che mi avevano tormentata. La situazione di isolamento in cui gli umani erano costretti a vivere (e con loro anche io) mi dava modo di non dovermi preoccupare che lei uscisse di casa e quindi tornavo nel mio appartamento per lasciarla lavorare ma a pranzo o a cena e la notte, lei era casa mia. 

Venerdì.

Carne alla piastra con verdure e poi noi.

L’unica mia attenzione era quella di distrarla con il sesso da qualsiasi notizia potesse mandare la tv.

Sabato.

Con mia sorpresa, niente lavoro ma pizza fatta in casa.

Non vi fu angolo esente da farina ma fu molto divertente disegnarle forme sul corpo con quella polvere bianca. Lei impastava e io potevo infilare le mani dappertutto e con la scusa del gioco riuscire ad accarezzare ogni singolo pezzo di pelle, guardare i nèi che aveva sul collo e baciarli uno ad uno o giocare con i suoi fianchi magri seguendo la linea del bacino con le labbra per poi annegare negli abissi più profondi del suo corpo.

Fino a quando non fummo costrette ad aprire le finestre per evitare di soffocare con tutta quella polvere in aria.

Domenica.

Al mattino accese la radio. La sua voce non era piacevole come alcune voci che avevo sentito per la città ma era divertente osservarla mentre saltava in giro. Mi perdevo in ogni movimento e avrei tanto voluto sospendere il tempo e tornare dietro per riguardarlo.

Stavo già creando danni al Tempo ma non lo sapevo e in ogni caso non avrei potuto fermarlo.

Potevo danneggiarlo ma non fermarlo.

A pranzo, piatto tipico del suo paese e poi la tv si trasformò in una sala giochi. M’insegnò ad usare uno strano aggeggio di cui non ricordo più il nome. Insomma mi permetteva di muovere un omino in tv per far sì che con strane mosse questo ne uccidesse un altro. Un gioco divertente a quanto pare per voi umani.

Lunedì e martedì.

Il lavoro riprese e per non disturbarla le lasciavo bigliettini che senza far rumore infilavo sotto la porta d’ingresso.

Non sapevo scrivere, solo leggere, ma forse l’amore è una forza così forte che a furia di ricopiare per ore la stessa frase scelta da qualche libro presente in casa, alla fine risultava scritta più o meno bene.

Non sapevo cosa sarebbe successo ma almeno i bigliettini sarebbero rimasti.

Arrivò il mercoledì.

Lei sarebbe dovuta scendere per la spesa settimanale e io chiesi di accompagnarla.

Scendemmo separate. Dovevamo far finta di non conoscerci, stare a un metro di distanza e indossare le mascherine ma almeno così potevo rendermi conto e capire se quei volantini erano ancora in giro.

Non ve ne fu traccia e camminammo tranquillamente fino a casa.

Presa dalle buste piene di cibo però non mi accorsi che al portone lei si fermò.

Di scatto.

La chiamai dicendole di aspettarmi ma quando mi resi conto di cosa stesse facendo era già troppo tardi.

Si girò con il volantino tra le mani dopo averlo staccato dal portone e mi disse solo “SEI TU”.

VI

Passò la notte a piangere e io continuavo a chiederle perché senza poterle dire la verità.

Tentavo di rassicurarla dicendole che non ero io e che forse era solo qualcuno che mi somigliava ma lei era troppo intelligente, non riuscii a ingannarla.

Si convinse che avevo perso la memoria e per questo sembrava che io non conoscessi nulla di questo mondo. 

Percepiva una sorta di inganno o tradimento ma ne rifiutava l’idea, questo mi fu subito chiaro.

Come potevo dirle che era vero? Che davvero non conoscevo nulla del suo mondo, anzi conoscevo solo lei?

Quella notte dormii solo poche ore ma al mio risveglio lei mi aveva già convinta ad andare da chi di dovere e palesarmi.

Non riuscivo più in nessun modo a contraddirla o a ingannarla e non potei fare che seguirla fuori casa e poi fuori dal palazzo giù per strada.

Quella notte non facemmo l’amore ma forse avremmo dovuto.

Quello che stavo provando si chiamava dolore e avevo sentito tanti umani parlarne ma non pensavo potesse essere così insopportabile. Potevo solo provare a tornare da dove ero venuta, porre fine alla mia sofferenza e a quella di chi cercava la donna scomparsa ma soprattutto alla sua.

Lei camminava avanti, a lato del canale, e io dietro a un metro di distanza quando improvvisamente decisi.

Lei sentì solo il rumore di un tuffo.

La vidi avvicinarsi alla banchina ma non sentii più la sua voce. 

Del corpo preso in prestito mi scusai con la luna e con ogni elemento naturale che mi punì.

Ero tornata nel mio mondo. 

Ero ritornata a essere semplice schiuma.

La mia punizione sarebbe stata la capacità di ricordare.

EXTRA.

Si svegliò di soprassalto con le lacrime che le rigavano il viso.

Il corpo era stanco come se avesse lottato per ore e ore ma si disse che era stato solo un brutto sogno.

Non ricordava cosa avesse sognato ma di sicuro doveva essere stato qualcosa di terribile.

Si alzò, si incamminò verso la cucina per un bicchiere d’acqua e sul tavolo scorse un bigliettino con su scritto: 

“Ancora una volta guardò il principe con gli occhi semivitrei, si gettò nell’acqua e sentì il corpo che si dissolveva in schiuma”, H.C. Andersen.

Avrebbe conservato per sempre quel biglietto senza mai capire né sapere perché.