Crepa

Crepa

Ciao. Che piacere rivederti.

Volevi parlarmi, vero? Mio dio, quanta freddezza… A stento mi degni di uno sguardo. Se non ti conoscessi abbastanza, chiederei cosa mai ti ho fatto. Ma siamo vecchi io e te, ormai. I nostri gesti fanno più chiasso delle parole. E tu non vuoi più usarle, le parole. Magari sarebbe di tuo gradimento dirmi cose che forse, anzi sicuramente, non mi lusingherebbero molto; ma non ne sei più in grado, ammettilo. Mi guardi e taci, come prima. Come sempre.

In fondo ti capisco. Non devi darmi spiegazioni, non stancare la tua mente. Piuttosto fa parlare me, vuoi? Incominciamo da una frase scontata, vediamo… sei pronto? “Sappiamo tutto l’uno dell’altra”. Oh!, altra ho detto? Mi perdonerai, ma più passa il tempo e più la mia identità si confonde. Dopotutto non appartengo ad una specie nettamente definibile, nutro persino seri dubbi sull’effettiva esistenza mia, figurarsi se sia davvero il caso di ragionare sul mio sesso. Maschio, femmina… che importa, alla fine?

Però, aspetta: dal tuo sguardo mi sembra di scorgere una piccola luce, cosa piuttosto rara ultimamente, fattelo dire. L’argomento suscita in te qualche reazione emotiva.  Parliamone allora. Sono maschio? Sono femmina? Cosa sono io? Dopotutto io sono solo una fessura.

Per alcuni maschi, sarei persino l’essenza del sesso opposto al loro. Nessun dubbio, quindi. Sono femmina. Uhm… vediamo: potrei essere anche uno spacco. Quanta virilità ha questo termine: spac-co! Quanta forza, il seme dittatoriale in un suono solo. Sarei quindi maschio, despota capofamiglia divisore di armonie, distruttore di correnti intellettuali o di qualsivoglia teoria scientifica. No. Non ingrana. Non sono io, non ti tratto in questo modo. Io.

Hai gli occhi lucidi, mio caro. In questo silenzioso spavento che pervade la tua stessa vita, a volte intravedo picchi di commozione, come la penna che trema ai più lievi terremoti dell’animo. E io mi sento così fiero anzi, così fiera - o come preferisci tu - di poter far parte della tua arte.

Sì è vero, non smetto di parlare. E dire che me l’hai fatto notare più di una volta con il tuo sguardo, ma proprio non riesco a cedere alla tentazione di provare a misurarmi con la tua mente.

Risulto interessante ai tuoi occhi? Ci riesco almeno un po’? Certo che ci riesco, altrimenti non staresti qui chino sulla tua vita a dipendere dal mio essere così logorroica. O logorroico. Però una volta solo una volta, non chiedo altro, dimmelo apertamente: io sono in-te-res-san-te! Desiderio inesaudibile, il mio. Non fa niente, dopotutto non ha alcuna importanza. L’importante è invece essere qui, vicino a te, sempre. E comunque. Uhm? Era un sorriso, quello? Dovrò farmelo bastare, immagino. Il tuo baffuto humor inglese, wow.  

Beh, già che ci siamo, visto che aleggia una certa ambiguità a parlar di genere, penso sia il caso di mettere sul piatto un’altra questione che mi sta a cuore. E’ snervante, mi mette angoscia il solo pensiero di dovertelo chiedere e rischiare così di infastidire una mente brillante come la tua ma… sembra che qui le cose stiano degenerando. E’ semplicemente intollerabile pensare che la tua più grande opera abbia ancora ambiguità, proprio nell’esser nominata. So che queste cose ti infastidiscono, ma la curiosità mi lacera: Crollo o Rovina?

Sai che ti dico? Ti confesso una cosa che penso già da tempo. Avvicinati perché il buonsenso mi impone di abbassare la voce, così da aumentare il senso di mistero. Avresti fatto - anzi scritto - lo stesso anche tu, ammettilo. Secondo me, mio caro Edgar, l’ambiguità nel titolo risiede nel fatto che tu non avresti voluto dare al tuo gioiello letterario il titolo che oggi vanta.

Bada bene, so con certezza che le mie elucubrazioni non sono avvalorate da tesi o documenti che ne attesterebbero la validità, anzi: in questo momento sto inventando tutto e di sana pianta. Bello, vero? Sono un po’ degno della tua immaginazione? Degna, scusami. Insomma. Non giriamoci intorno, maestro mio. E’ ora di buttare giù la maschera e dirsi la verità.

Al tocco suadente di una lontana chitarra, l’unico suono che attualmente sei in grado di sopportare, hai cercato di dare un significato alla fine, all’esperienza del limite di ogni essere umano. Ma i miti muoiono di questi tempi, caro mio. La mente si denuda del simbolo, e di fronte alla verità sei solo, e pure in mutande. E fa freddo. E si gela. Si muore, anzi.

Illuminatevi allora!, candele notturne a dipinger motivi spettrali. Volteggiate tende!, voi che potete. Sbattete porte!, nel silenzio del buio profondo. Camminate cadaveri!, siate sonnolenti e sensuali lungo corridoi bui e tetri. La morte non si può comprenderla se non con la morte stessa.

Edgar, mio caro, lo senti il vento? Il tuo vento? L’ululato lugubre che spinge via gli alberi, alza il mare, pressa questa casa maledetta e si comprime alla sua tremenda forza. L’uragano è il mostro d’aria che porta via gli antichi e desueti simboli romantici, i riti dell’estremo passaggio scaraventati come foglie secche e morte. La morte senza più vita, che spinge nel suo esser assoluta e stupida e irrisolvibile.

Ho io il nome del tuo orrendo capolavoro. Il suo nome è il mio nome. Quella fessura, quel piccolo spacco nascosto tra le mura e che adesso, alla furia della morte nuda di ogni simbolo, si fa sempre più grande e scura, vagina madre che torna ad essere protagonista, e che stavolta non crea ma divora tutta la tua immaginazione.

Crepa!, Edgar. Questo è il mio nome, questo doveva essere il titolo della tua opera. Crepa! Fica che si riprende tutto ciò che hai creato. Muori!, nella tua depressione alcolica da quarantenne, i tuoi sensi spinti all’inverosimile nel bieco tentativo di cercare ancora qualcosa di vero nell’immaginario umano. Placa la tua spasmodica ricerca, addormenta i tuoi nervi, dopotutto è tutto così ironicamente inutile. Torna a nasconderti nella fessura che hai creato, e attendi che le pagine tue arrivino alla fine della fine.

Crepa, Edgar. 

 

 

 

Liberamente ispirato al racconto di

Edgar Allan Poe

“Il crollo della casa degli Usher”