Il desiderio più grande

Il desiderio più grande

Era la Vigilia di Natale. Margherita si sentiva strana. A partire dagli occhi. Le palpebre le erano diventate due macigni che non era più in grado di spostare. Era sdraiata, questo lo sentiva, su un tessuto e su un cuscino morbido, forse in seta, e un profumo dolcissimo le riempiva le narici. Qualcuno attorno a lei stava mormorando una nenia di cui non riusciva a distinguere le parole. Le pareva la ninna nanna che sua madre le cantava quando era piccola. Sentiva delle piccole sfere tra le dita, lisce come le biglie con cui giocava, insieme ai suoi fratelli, da bambina.

Margherita era morta il giorno prima, nel sonno, all’età di novantanove anni.

Anche quando morì Caterina, la sorella di Margherita, era la Vigilia di Natale. Ed era così piccola. Troppo piccola, Caterina. Era passato tanto di quel tempo, ma a volte a Margherita sembrava ancora di sentire la voce della madre che chiamava quel nome: Caterina. Quel nome soltanto: Caterina. Era andata avanti anni e anni, la madre, a pronunciare solo quel nome. E pensare che c’erano ben altri sei nomi lì, pronti da pronunciare, nomi che non aspettavano altro che poter uscire dalle labbra di una madre.

Aveva nove anni Margherita, e Caterina cinque, quando la vide distesa e composta là. Un lettino bianco al centro della stanza, dei ceri attorno e lo stesso profumo intenso di fiori che ora le inondava le narici.

E quella nenia che sua madre aveva cantato, stringendo a sé le mani bianche e pesanti di Caterina. Da quel momento anche il corpo della madre si era fatto pesante, si era fatto incudine e si era fatto martello: si era fatto strumento per forgiare e rendere eterno quel piccolo corpo che, di lì a poco, avrebbe dovuto abbandonare.

Era stato là che una strana e insana invidia per la condizione speciale in cui versava quella sorella l’aveva presa. Perché Margherita lo aveva visto che quella piccola bara bianca al centro della stanza era diventata il centro di tutto. Quella piccola bara bianca al centro della stanza si era portata via sua madre. Quella piccola bara bianca al centro della stanza si era portata via la voce di sua madre. Quella piccola bara bianca al centro della stanza si era portata via la voce di sua madre che pronuncia i nomi, il suo e quello dei fratelli.

Aveva nove anni, Margherita, e quel nome, il suo, lo aveva scelto la madre.

Fu così, per invidia, quell’enorme e insana invidia che la invadeva ogni volta che sentiva gli occhi bianchi della madre pronunciare il nome della sorella, che Margherita aveva preso quella decisione: lei no, non sarebbe morta, mai.

Le mattine d’inverno, per Margherita, erano rumore di zoccoli, zoccoli che bussavano sul sentiero nero e ghiacciato che portava alla scuola, in mezzo ai campi addormentati. Bussavano sempre, quegli zoccoli, senza avere risposta.

Il sentiero freddo era costellato da piccoli becchi arancione, residuo della notte. Nessun pigolio, non più. Margherita non resisteva mai dal tastare i corpicini morbidi di tutti, fino a scoprine uno ancora caldo.  Non resisteva mai dal tenerne tra le mani il calore, quel calore che per poco ancora avrebbe abitato la lana grigia delle piume. Non era pietà, no. Margherita avrebbe voluto annidarsi dentro a quelle piume, chiedere loro come avevano saputo resistere alla notte, e battere sul tempo la durezza che di lì a poco avrebbe scolpito quelle piccole ali.

Non era pietà, no. Anzi. Ogni mattina Margherita sperava di vederne tanti di quei piccoli becchi arancione, tanti piccoli becchi sigillati per sempre, a costellare il sentiero. E sentiva che la sua cattiveria era tutta lì, nel desiderio di vedere ogni mattina quel sentiero costellato da tanti piccoli becchi arancione, scintillanti di brina. E intimamente Margherita avvertiva che quel calore, in grado di resistere alla notte ghiacciata, aveva qualcosa di straordinario, di magico e di bellissimo. E più pensava questo più si convinceva della sua profonda cattiveria.

I compagni di scuola la superavano indifferenti, o la compiangevano per l’ennesima punizione che a scuola avrebbe subito a causa del ritardo. Margherita piangeva, non perché sentisse la verga bruciante del maestro sferzare e coprire di tagli le sue giovani mani, Margherita piangeva perché ancora una volta la magia straordinaria e bellissima di quel calore le si era spenta tra le dita, senza rivelarle alcun segreto.

Terminata la scuola era di nuovo rumore di zoccoli, zoccoli che bussavano sul sentiero nero, e sul ghiaccio disciolto, senza avere risposta.

S’andava a messa, la domenica, le donne con i fazzoletti scuri sulla testa. S’aspettava la domenica, se non altro per riposare un po’ le ginocchia sulle panche lucide della piccola chiesa del paese.

Don Cesco era un giovane prete. Quando l’anziano parroco morì mandarono don Cesco, a sostituirlo. Don Cesco arrivava dalla grande città e tutti si chiedevano quale peccato avesse commesso per spedirlo là, in quel paesino che era solo campi, e campi. Campi scintillanti di ghiaccio d’inverno, campi gialli zeppi di spighe d’estate. E odore. Odore di letame d’estate, odore di neve d’inverno.

Don Cesco era bianco di capelli, nonostante la giovane età. E quando ti guardava strizzava stretti stretti i due occhi, azzurrissimi. E pareva che assieme agli occhi volesse strizzare, stretta stretta, anche la persona lì davanti a lui.

Prima della messa era d’obbligo la Santa Confessione e Margherita, a differenza delle altre ragazze del paese, entrava in confessionale con gli occhi alti, e quasi danzando.

Ma don Cesco non si limitava, come l’anziano parroco, a chiederle se si era ricordata di dire le preghiere del mattino e della sera e se aveva portato rispetto ai suoi genitori. E nemmeno, come faceva il vecchio prete con le più grandicelle, se si era toccata là dove era proibito anche solo pensare di sfiorarsi, o se aveva fatto “cattivi pensieri”.  No, a don Cesco non interessavano tali quisquiglie, don Cesco voleva sapere di più, molto molto di più.

E così una volta in confessione le chiese: «Margherita, qual è il tuo desiderio più grande?»

Margherita, gli occhi enormi: «Padre, cosa vuol dire?»

«Vuol dire se c’è qualcosa per cui rinunceresti anche a quel poco di pane inzuppato e minestra che tua madre ti mette nel piatto. Per cui cammineresti a piedi nudi sulla strada ghiacciata per ore, senza fermarti, fino a dimenticare di averli, dei piedi, fino a dimenticare di averlo, un corpo.»

«Allora sì, padre. Io non voglio morire mai. Voglio capire come si fa a non morire mai.»

Don Cesco strizzò gli occhi azzurrissimi tutti addosso a Margherita.

«Non sei altro che una contadina stupida! Puzzi di letame come tutte le altre e pretendi di non morire? Tu morirai, eccome se morirai, e vermi trasparenti spunteranno dai tuoi occhi!»

Margherita strinse forte le labbra e la voce di don Cesco divenne più morbida: «Una brava ragazza di questi pensieri non ne fa e non ne deve fare mai. Tu devi desiderare di essere obbediente e santa agli occhi di Dio. E adesso, poiché il tuo peccato è grave…»

Don Cesco, da dietro il confessionale lucente, allungò le sue fredde mani e, dopo averle girate pian piano tra le dita, porse a Margherita tante piccole pietre, aguzze e splendenti: «Mettile sull’inginocchiatoio mentre reciterai cento volte l’Ave Maria e cento volte il Pater Noster. Vediamo se ti passa, la voglia di desiderare!»

Quando Caterina morì era pomeriggio, fuori nevicava. Presto la neve sarebbe divenuta ghiaccio, Margherita lo sapeva.

Quella stessa notte Margherita, stesa a letto, aveva passato la lingua sulle labbra fino a sentire la pelle, secca, che si staccava. Non avrebbe voluto aprire gli occhi, alzarsi dal suo giaciglio e affrontare tutto ciò che era posto nel centro dello stanzone, gelido. Ma non aveva alternativa. Aghi sottilissimi cominciavano già a pungerle la gola, e il secchio con il mestolo di rame per abbeverarsi era all’ingresso.

Davanti a lei il letto bianco e ricamato su cui era stata posta la sorella si innalzava: unico vero gioiello di quell’abitazione. E la bara brillava della luce lattea e fredda dei ceri che erano stati sistemati tutt’attorno. Margherita guardò Caterina che era ancora perfetta: la pelle che profumava di lievito, come le mani della madre quando impastava il pane.

Non era mai stata così fresca e profumata, sua sorella. La morte no, non ti prende tutta subito. La morte all’inizio è uno stato di grazia e ti può persino regalare ciò che in vita non hai avuto mai. E non è ancora vera morte quando tutto, del corpo, si ferma. No. La vera morte arriva dopo. Vera morte è quella che imputridisce il sangue. Quella che giunge, successivamente, a disfare e a sciogliere la magia.

Margherita guardò la madre, assopita su una sedia, il capo reclinato: la morte, che per ora aveva risparmiato la sorella, aveva ormai preso completamente possesso della sua, di pelle, e ora le abitava ogni vena del volto.

Quando accostò il mestolo di rame lucente alle labbra Margherita pensò alle labbra bianche della sorella che la madre, con quello stesso mestolo, fino a poche ore prima aveva dissetato.

Fu in quel momento che prese la decisione: lei no, non sarebbe morta mai.

Novanta Vigilie dopo era stesa là, Margherita, piena di desiderio; nemmeno i macigni che le sigillavano gli occhi avevano potuto schiacciarlo.

Quella nenia di cui non riusciva a distinguere le parole le ricordò il mormorio cadenzato delle donne, le ginocchia stanche a riposare, la domenica, sui banchi lucenti della chiesa.

Sentiva, tra le dita, tante piccole sfere. E pensò alle mani lisce e fredde di Don Cesco, divenute pietre aguzze e splendenti, sulle sue ginocchia nude.

Un profumo dolcissimo le riempiva le narici. Il profumo delle mani morbide della madre quando impastava il pane.

La morte no, non ti prende tutta subito. La morte all’inizio è uno stato di grazia e ti può persino regalare ciò che in vita non hai avuto mai.

Margherita sentì il calore delle mani sciogliersi pian piano, e nel sangue formarsi tanti piccoli aghi di ghiaccio: tanti piccoli becchi arancione, lucenti di brina, a costellarle la carne.

E le venne sete: la sete della morte che, quando finisce la grazia, prosciuga il corpo.

E desiderò ancora con tutte le sue forze, le sue ultime forze, ci fosse un modo di fermarla per sempre, quella sete.

Margherita era morta. Era morta il giorno prima, nel sonno, all’età di novantanove anni.