A las cinco

A las cinco

《(…) E tutti gli uccelli gridavano con un’unica voce
la voce di quelli che non hanno voce
la voce degli invisibili del mondo
la voce dei diseredati del mondo
dei fellaheen della terra.》
Lawrence Ferlinghetti

Mi hanno cosparso le zampe con qualcosa che ha un odore insopportabile e brucia. Non riesco a stare fermo, da ore ormai.
Hanno spalmato un unguento sui miei occhi, la vista è annebbiata. Il caldo è insopportabile e respiro a fatica.
Sento i muggiti lontani dei fratelli, richieste di aiuto, e io sono bloccato qui - Ah, se potessi correre.
Ecco, mi liberano:
“Arrivo, fratelli!”.
Percorro un corridoio angusto, sconosciuto. Faccio più in fretta che posso, intravedo sagome di uomini che dall’alto mi colpiscono e gridano. Galoppo per sfuggire ai loro bastoni e arrivo a un’altra porta. Mi giungono rumori e odori, annuso forte l’aria attraverso la fessura di questa porta, per capire.
Finalmente si apre e mi getto fuori.
Non ci sono i miei fratelli, di loro resta l’odore. Il mio stesso odore, quello del nostro fiato, del nostro pelo. E c’è anche l’odore della paura, che forse è solo mio. E un odore di morte, che mio non è e sale da questa terra battuta che non è uniformemente bianca.
Alzo la testa, espiro forte dal naso e sbuffo e cerco di liberarmi le narici da questi odori più forti di qualsiasi cosa abbia sentito.
C’è un clamore di suoni e colori. Non vedo bene, ma certo molti uomini si sono riuniti qui e producono suoni. Colori ovunque, quanti non ne ho visti mai. All’allevamento c’era il verde lucido dell’erba e il giallo delle praterie e i verdi teneri dei bordi spinosi di cactus dove arrivavo saltando con i fratelli. I fiori dei cactus erano gialli, alcuni rosa: noi cercavamo di brucarli. C’era Miguel, anche, e lo lasciavo avvicinare e accarezzarmi il dorso. Si prendeva cura di me. Altri mandriani si prendevano cura dei fratelli.
Qualche volta ci raggiungevano delle femmine, nella prateria: giovenche dai corpi forti - ondeggiavano sui prati lasciando strisce di profumo irresistibile. L’odore era forte e smaniavo. Quando c’erano, Miguel lasciava che mi unissi a loro.
Anche questo odore è forte, questo odore di morte e di sudore. Di eccitazione. Anche i colori tutt’intorno ondeggiano, si muovono e c’è come una scarica elettrica che percorre tutto, molto più forte di quella che dava il filo, la recinzione della prateria.
Tutto intorno è rosso e giallo, i colori del sole. Sole che picchia su questa terra battuta e su di me e sull’oro che ho intorno. Manda riflessi accecanti.
Nelle narici entra sanguigno e brucia.
Voglio tornare nella prateria, sentire il fresco dell’erba, voglio uno scroscio di pioggia, e rumori di tuono. Vento della pianura perché non soffi? Uragani e tempeste accorrete a spengere questa pioggia di fuoco!
Ma che succede ora. Entrano uomini a cavallo, mi circondano. Gli occhi dei cavalli sono bendati, ma dall’odore so che sono sbarrati dalla paura. Li conosco, i cavalli - ce n’erano all’allevamento. Ci assomigliamo, solo che loro si lasciano montare dall’uomo, noi no.
Gli uomini spingono in avanti i cavalli usando gli speroni e quando mi sono vicini mi colpiscono con punte acuminate. Non sento dolore, ma una rabbia salire dagli zoccoli imbevuti di veleno e arrivare alle corna, muoverle in avanti alla cieca, con questi occhi che vedono poco. Devo allontanare gli uomini e le loro armi. Sento le corna penetrare nella pancia del cavallo, fino in fondo, sento che frugano nella carne viva.
Il cavallo ha disarcionato il cavaliere e ora si allontana, disperato cerca la porta da cui era uscito sull’arena.
I cavalli pascolavano vicini a noi, all’allevamento. Correvano sulle praterie, scuotevano le criniere bellissime nel vento. Ora questo fugge calpestando nella corsa le proprie budella. Mi lancio sul cavaliere, ma un altro cavaliere e un altro ancora si avvicinano con le loro cavalcature e insieme mi colpiscono. Ancora.
Il primo cavaliere si è rialzato. Gli viene riportato il cavallo atterrito, morente, e l’uomo di nuovo monta in sella. Adesso ci vedo un po’ meglio: la folla è in piedi, le grida aumentano, le mani battono a migliaia. È dunque questo quello che vogliono da me?
Sì, dev’essere questo.
Allora va bene, faccio quello che vogliono: mi slancio ancora sui cavalli, il mio sangue gocciola sulle interiora che essi perdono sull’arena, mentre risuonano sempre più alte le grida intorno.
Altri uomini arrivano, piantano bandiere sul mio dorso. Bandiere ce n’erano anche all’allevamento: sui pilastri d’angolo della recinzione sbatacchiavano al vento.
Carico, cerco di spaventarli. Perché mi perseguitano, mi tormentano?
Nella prateria c’erano molti uccelli. Seguivano i nostri passi, si appoggiavano sulle nostre schiene a mangiarci le zecche. Poi volavano via. Avessi le ali. Ci sono animali che nascono liberi. I cavalli no, l’ho capito subito. I tori nemmeno, e io che credevo di esserlo.
Ah, Miguel! Cosa è accaduto della tua mano che mi toccava la groppa? Non vedi cosa mi stanno facendo? Grido e muggisco con la forza che mi rimane:
“Da questa parte! Di qua, Miguel! Non mi vedi? I fratelli sono morti, l’odore del sangue è ovunque. Ho ucciso i cavalli, era questo che volevi? L’ho fatto. Ma ora vieni, accorri in mio aiuto!”.
Poi, improvvisamente, tutto tace. Sento le gambe deboli, ma resto ben piantato al centro, col mio decoro di bandierine e una nuvola di mosche a tormentarmi le ferite. Con me solo due cavalli che si dibattono nell’agonia, le zampe verso il cielo.
Tan Tan Tan. Un suono lento e triste si diffonde nel silenzio. Entra un uomo piccolo, riccamente vestito. Nella mano sinistra regge una spada che crede nascosta sotto a una stoffa rossa, ma io la vedo.
Taratatan. Tan tan. Taratatan.
L’uomo avanza mostrandomi il suo drappo rosso. Mi lancio verso di lui, più volte. Sa evitarmi, è scaltro.
So che mi ucciderà, e non so perché.
Gli vado incontro per l’ultima volta, a testa bassa. Sento la lama attraversarmi il corpo. Il sangue m’invade il respiro e arrossa la schiuma che esce dalla bocca, dalle narici. Mi piego sulle ginocchia. La folla grida e applaude, lancia fiori. Era questo che volevi, Miguel? Questi inni di gioia?
Il dovere è la morte, ora ho capito.
La testa mi cade nella polvere.
Non sento più caldo, finalmente. Anzi, brividi mi percorrono la groppa, come quando si avvicina un temporale. Forse pioverà.
Sono spariti tutti, il mio corpo si abbandona a questa nuova pace: la terra la penombra il fresco accolgono il peso del mio corpo. È un momento magnifico, vedo di nuovo il verde splendente dei fili d’erba. E quanti fiori, tutti intorno. L’odore di una giovenca mi raggiunge, è il profumo più buono che io conosca. I fratelli sono intorno a me, insieme leviamo alti vittoriosi muggiti. Mentre si fa sera.