PARTITUREChiara Canu

Intermittente

PARTITUREChiara Canu
Intermittente

Quando ti ho conosciuto avevi vergogna di te. Ti vergognavi poco prima di una sera fuori, oppure davanti allo specchio di un negozio nel tentativo di misurarti una gonna, un vestito a colori o un bikini. La pelle chiara si mostrava intera dal tuo corpo puntellato di nei che hai odiato da sempre, né troppo magro né troppo grosso. Niente di tutto ciò che ti riguardasse sembrava rientrare nel cerchio di un'accettazione anche solo apparente. Ti rinnegavi, in lotta con un riflesso pronto ad avvicinarti a una crescita innocente, mentre tu insistevi per levartela di dosso, quell'evoluzione, bramando altre linee, altre fisicità, altre biologie. Anche le mie?

Ebbene, persino oggi si torna a parlare di te, senza che io sappia più cosa dire. Si torna a parlare di te con chi altrettanto ti ha conosciuto, ma mai come ti ho conosciuta io (presunzione interiore che mi ostino a concedermi). L'altra notte sei ricomparsa in sogno, nella stessa veste e con lo stesso sorriso, quei denti larghi pronti a raccontare un imbarazzo o un'allegria tutta istantanea. Un disegno di bocca che oggi – ne sono certa, perché non dovrei esserlo? - non ti stampa più il contorno di quelle labbra né troppo sottili né troppo grosse.

Tutto questo non fa però comprendere l’incrocio dei nostri vuoti, in ascolto l'uno dell'altro finché si è potuto, finché si è voluto: la gita al ginnasio, la tristezza nei tuoi occhi troppo piccoli per contenerla e che, durante una di quelle notti, si rivela per chiedere aiuto. La prima volta che hai detto "guardatemi" e io ti ho vista, attanagliata da una supplica fino a quel momento inascoltata. Rinnegavi te stessa prima ancora di rinnegare la vita. A quindici anni è possibile, come è possibile perdersi su un banco di scuola nel buio della propria mente e restare lì, soltanto lì, mentre le voci intorno sfumano in un rumore atono e senza forma. Tu questo l'hai sempre saputo, esperta soltanto di te.

Poi, una fotografia. Quella che abbiamo scattato dalla nave con le facce sfatte da un sonno bruscamente interrotto, poco prima di rientrare alla nostra terra. Negli anni a venire l'avremmo odiata con tutte noi stesse, ridendo di quell'apparire così adolescenziale, tra capelli fuori posto, apparecchio ai denti e corpi indesiderabili. La foto, indizio irripetibile dei nostri esordi, è ancora nascosta dentro il raccoglitore beige con i disegni di un mappamondo antico, quel mondo che solo fino a un certo momento si può stringere in mano. Puntualmente mi trovo a ricacciarla insieme allo stesso identico presagio di rancore che non ho più le forze di ascoltare.

Dei pomeriggi a casa tua o in spiaggia, solo il sapore di una nostalgia tangibile sulle nostre primodriali differenze: tu bianca io scura, tu riccia io liscia, entrambe con il vizio della riflessione e dei buoni principi senza nessun principe vicino, di fronte a una vita che sfotte le nostre inutili insicurezze, quei beceri disagi di chi vorrebbe solo riuscire a vivere fregandosene dei pensieri. Due incapaci che brillano sorridenti delle loro fantasie.

Una volta mi hai azzardato un complimento. Camminavamo sotto il portico affollato di un centro di provincia, tra voci e fischi di uomo dietro i nostri passi distratti. Di quelle parole ricordo solo una veste in superficie a coprire ben più grandi profondità, che senza accorgermene sei sempre riuscita a mascherare un po'. Mi chiedo quanto fossi abile ad ingraziare tenerezze confondendo la gentilezza con l'ammirazione spietata, i tuoi vuoti con i pieni degli altri. Anche i miei.

E poi? Sembri fatta di "poi" che non so più delineare. Sommersa da un oggi polveroso, scrivo di te come fossi un ricordo alla rinfusa. Con i tuoi modi ed il tuo essere sei riuscita a farti trattenere anche a una distanza lontanissima. Incolpo te e così nego di essere io a trattenere ogni cosa, persino quello che non serve, in bilico tra ciò che si voleva e non si sa più. Intermittente.

Il vento dei vent'anni ci ha avvolte come una camicia di forza, stringendoci al richiamo di un'interiorità che muta e non vuole. Ti guardavo negli occhi, quegli occhi piccoli, e mi pareva di sentire tutto l'odore di un'unione possibile. Ti donavi in slanci di abbracci stretti e improvvisi, mi riservavi un affetto che alla fine era solo il riflesso di quello che volevi per te e per te soltanto, spargevi lealtà sui miei giorni di sole e nuvole. Sorreggere il peso dei tuoi malesseri era il mio unico modo di ricambiarti, di trattenerti.

Ho perso il conto delle notti a raccontarci le nostre immaginazioni, con le gambe sollevate verso il muro illuminato dalla fievole luce dell'abat jour, ora ridendo ora più serie nella leggerezza di un pigiama estivo; o mentre ti tengo tra le braccia e raccolgo le tue lacrime, nell'insano scopo di cancellare una volta per tutte i tratti delle ferite che continui a mostrare e gridare.

Volevo essere il tuo pieno e non era necessario. Lo sapevi tu, oggi lo so io. Quanto si può essere stronzi a capire certe cose solo dopo?

La camicia s'è strappata spedendoci nell'imprevisto di un altrove diviso. Forse lo sapevamo, forse ce lo siamo dette con quelle voglie che hanno smesso di essere entusiasmo, ascolto, discorsi, abbandonate da una forza sempre più debole, senza capire dove siamo giunte e perché ogni volta, là in fondo, debba esserci scritta una fine. Forse lo sapevamo ma nessuno l'aveva accennato. Che guaio il sapore della fregatura.

Oggi che compio trent’anni fisso l’unica sedia vuota lungo questa tavolata di festeggiamenti. Penso: potevi esserci tu. Mi sembra di vederti, la testa appoggiata a una mano, la pelle chiara e gli occhi piccoli ma attenti – la stessa posa che porti dentro l'immagine del tuo profilo – mentre guardi e ascolti la me che non conoscerai.

Invece posso solo immaginarti come potresti essere davvero, mentre cammini contornata di quella felicità oggetto delle tue aspirazioni recondite, sotto il portico affollato di un capoluogo, chissà, mano nella mano con il lui che sposerai e con cui già vivi la vita che volevi – i tuoi vuoti sono ancora vuoti? – piena di quella pienezza che non prevede assenza. È così che ti vedo e non sento, non provo, come quando mi capita una tua vecchia foto tra le mani e si interrompe tutto ciò che è in potere del prima.

Ma è alla luce di una distanza sempre più vasta di luoghi, tempi e corpi che posso rivederti com'eri; allora riesci a mancare, persino oggi, persino adesso. Poi arrivi in sogno e colmi assenze, le mie. Come fare a dirti che solo nei sogni tutto ritorna com'era? Le parole, i gesti, le espressioni di un sentire condiviso che pareva nostro e invece poteva essere di chiunque.

Ora sono io a vergognarmi: del divario tra me e ciò che i fatti affermano a gran voce, come una bocca spalancata di pescecane pronta a zittirti e risucchiarti; del bisogno di fermare il tempo che ci sovrasta irreversibile sull'unica direzione che mai più ritroviamo.

Di tutto quel crescere, dei giuramenti solo apparentemente certi, resta una sfumatura, forse, una luce di tramonto intermittente che evapora per non tornare.

Quando ti ho conosciuto è ancora qui, e se provo a parlare di te, non mi resta niente da dire. Ma dentro, solo dentro, sì.