Silloge in cocci

Silloge in cocci

«Io conosco solo due grandi problemi: come sopportare la vita e come sopportare se stessi.»

(E. M. Cioran, Un apolide metafisico)

Non bastava strappare dalla placenta un corpo

sfiancato dal presagio del vagito finale.

Bisognava sparare in bocca un silenzio definitivo all'infante,

stroncare il desiderio di infinito

fracassargli le ossa nello stillicidio di giorni identici nel dolore.

Trepidante attesa per la Scena Madre di quest'opera inconclusa.

Nel sonno caddi dall'albero e squarciai il ventre di mia madre: vi infilai biglie trasparenti, monetine d'oro, petali di ranuncolo. Mi ficcai dentro, ricucii tutto sperando di rinascere pura, preziosa, profumata. E che fosse felice dell'albero come del frutto. Pensavo che sarebbe rinata insieme a me invece più io crescevo più lei sfioriva. Ricordai che dentro il ventre di mia madre ero un limone: piangevo, le mie lacrime cadevano sulle sue ferite. Non capirò mai perché quando si nasce ci si sente subito soli. Le ferite ci separano invece che unirci. Il nostro amore è in putrefazione.

Facciamo un gioco – disse mia Madre – prendi una cosa che ami.

Sul letto sfatto c'era il Coccolino di pezza, il mio preferito.

Lo presi.

Staccagli il braccio – disse mia Madre.

Non voglio fargli male – risposi.

Se impari a distruggere tu stessa la cosa che ami nessun altro potrà farlo, nessun altro avrà questo potere – disse mia Madre.

Chiusi gli occhi, abbracciai il Coccolino.

Aprii gli occhi, li ficcai in quelli di mia Madre. Feroci.

Il cuore, quel pomeriggio, l'ho preso a morsi e buttato nel cesso, insieme al vomito e alle piume, e ho tirato lo sciacquone. Il Coccolino restava a terra, inservibile. Non raccolsi i suoi pezzi, e nemmeno quelli di mia Madre.

Madre spezzata dalle proprie pene, bramosa del Suo dolore,

La attende sull'uscio con ali spiegate,

le gambe accavallate, i lustrini della festa,

il ventre vizzo, i seni riarsi, La seduce e «vieni»

-dice-

La persuade a tornare al conforto di ogni cosa saputa.

Madre non si dialoga, si subisce.

Figlia ritorna, diventa Madre e si spezza continuamente.

E, spezzandosi, continua.

L’unico atto idoneo alla vita è il silenzio.

O un grido di disperazione.

Per uscire dal bianco di questo inferno basterebbe un grido feroce,

o un battito d'ali.

Vessata dall'esecrabile balbuzie di un'attesa inutile, questa piccola donna

sdraiata, immota

ha barattato sottili labbra dorate con un paio d'ali bucate.

Ebbra di stanchezza – sfianca, troppa bellezza

s'addormenta accanto al mozzicone acceso – un'ala si brucia

e batte il capo sul sasso scagliato da un dio borioso.

Apre gli occhi come chi muore senza aver mai saputo il volo

nessuno al capezzale.

Non chiama l'infermiera, si sfila le ali, le butta dal balcone.

Lancia un ultimo sguardo alla luce bianca butterata dal dolore

di chi resta, sonnecchiando

in attesa del prossimo morire.

Non ci si abitua all’umiliazione di morire, o di guardare chi muore.

Bacio le labbra estinte di qualcuno che ho amato

senza toccarlo accolgo il rumore rappreso

di sangue stinto. Posso solo guardare.

Mi ferisce troppo amore la sera di chi resta solo.

Mi ferisce sapere. Non poterlo (potermi) salvare.

«...il mio interesse va sopratutto a ciò che è fragile, precario, a ciò che sta crollando, e anche a ciò che resiste alla tentazione del crollo ma mantiene la costante del pericolo.»

(E. M. Cioran, Un apolide metafisico)

Se si spezza la Parola sul binario

non voltarti.

Io sono – di quelli che non avanzano –

lo scarto, lo sputo raggrumato sul mozzicone spento.

Io resto – Do not go beyond the yellow line –

il braccio sempre teso oltre la linea di confine,

brandelli di cuore appesi alla banchina.

Alle 9.35 consumo l'ultimo fischio d'Addio,

sul mio labbro sbreccato nessuno si siede.

Se mi cerchi, sono la Cosa che giace al binario 2.

Il silenzio è tempesta di buio che pesa,

non so (non oso) parlare, non oso (non so)

la Parola (perduta) per dire

la Cosa. Deraglia, sbiadisce, perde peso.

Il buio, ciondolando, spezza il collo alla sillaba iniziale.

Nessuno intima fermate l'esecuzione!

All'alba la parola resta sola sotto la lama,

senza più suono, senza nessuno che la dica, perdura

spezzata.