PARTITURECiro Teleffe

E io ne godevo

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E io ne godevo

Mi ero fatto una canna sul calar della sera. Il mio vicino ha sempre l'erba. Avevo smesso da un po', non mi prendeva bene, mi veniva l'ansia. Sarà che poi sono stato ansioso sempre, e adesso quando fumo mi rilasso tanto da mettermi a scrivere poesie.

Scrivo in uno spazietto speciale che io chiamo scherzosamente il mio studio: fra la cucina, la camera e il bagno, una sorta di sgabuzzino-corridoio, roba di poche mattonelle; lì c'è una scarpiera poggiata al muro e ci sono io in piedi, fatto e pensieroso che scrivo poesie con una penna rossa su un quadernone.

Un giorno ho scritto una cosa che in fin dei conti parla d'amore. Parla di un mondo in cui nessuno rimane indietro. L'ho fatto lì di fronte a tutti (in realtà non c'è nessuno), ho sentito la verità scorrermi dentro. Non voglio prendermene il merito, non viene da me: io sono solo quello che vomita la potente verità (il fattone).

Sono uscito sul ballatoio, la casa è molto piccola, ma abbiamo una parte di terrazza comune. Mi sono messo ad annaffiare le piante che era già buio. Il gelsomino, appena sente l'acqua, sprigiona un profumo che mi anestetizza la rabbia. Lascio cadere il getto sulla pianta tipo pioggerella leggera, è divertente, mi sembra di farle il solletico. Gli viene da ridere alla pianta.

Se ho qualcosa da annaffiare è merito di Ele. Io direi sempre no. Compriamo una pianta? No.

Anche se stiamo in questa casa è merito suo. Non lavoro da mesi, non ho niente, ma faccio spesso questa cosa di guardare in alto, per fuggire sopra ai palazzi del cortile. Mi piacciono i palazzi rovinati, con le piante sui balconi degli altri e mi conforta il cielo, non gli chiedo mai niente, al cielo. Non ci ragiono col cielo, l'universo, questa roba qui, non ci ragiono. Ma alzo la testa, guardo su, e mi sembra di respirare. Da sotto sale il profumo del gelsomino e mi sembra di mangiare un dolce.

Chi mi vede ora penserà che sono calmo, è vero: una calma come di stagno, pelo dell'acqua liscio perfetto, non si muove niente, ti ci puoi specchiare, esce il coccodrillo e ti azzanna.

Sono arrivato a un livello di fastidio nei confronti della vita che se per esempio mentre stendo i panni mi cade una molletta, io la vivo come un affronto del padreterno, e attacco a bestemmiare per diversi minuti. Mi carico da solo e bestemmio con gli arretrati per ogni sciocchezza. Lo faceva mia madre. Passo cinque minuti buoni a bestemmiare. Creo bestemmie coinvolgendo quel Cristo in tante situazioni spiacevoli. Mentre lavo i piatti o cucino o gioco a carte, bestemmio a lungo, a voce alta o sussurando fra me. Gli dico di scendere, al porco.

Da un po' di tempo è comparso un cartello in cortile, in cui si chiede agli "ignoti che imprecano" di mantenere la calma e di rispettare il decoro. Qualcun altro con un pennarello diverso e una grafia diversa ha aggiunto una parola: vergogna.

Ma ora ho fumato e sono sereno. Rientro dentro e mi vado a sturare il purino. Ho di nuovo sviluppato una certa tolleranza, perciò me lo devo fumare quasi tutto. Mi lavo i denti, sistemo ciò che c'è da sistemare, e mi metto a letto con Eleonora.

A volte smetto di pensare a me e penso a lei, alla persona straordinaria che è. Sento che non vorrei perdermi nemmeno un atto della sua vita. Se a volte sono triste e mi viene voglia di andare a fare il vagabondo, poi ci ripenso e mi dico che non si abbandona uno spettacolo in cui ti hanno dato una parte. Lei è la mia compagna, siamo una compagnia. A me piace questa idea di invecchiare insieme, diventare così intimi che il dolore e la gioia di uno siano di entrambi. L'interdipendenza. Fa paura. Ci vuole coraggio. Non è che non ami la mia identità, ma ne ho così tanta che mi pesa, sono disposto a perderne un po', a contaminarla con la sua, tanto mi disintegrerò come tutti, e poi lei è una persona bellissima. Mi va di diventare un po' come lei, e anche lei, se riesco a trovare un po' di serenità, secondo me fa un buon affare.

A volte, mentre dorme, mi metto con la testa vicino alla sua e provo a fare finta di essere lei, di sentire e pensare come lei. È un gioco che mi riesce bene perché sono allenato: da ragazzino mi affacciavo alla finestra, sceglievo i passanti e mi ci trasferivo dentro. Mi sembrava proprio di sentire il calore del sole che colpiva la loro pelle, di vedere ciò che vedevano loro, di annusare l'aria che avevano attorno. Che io sappia, è un esercizio di empatia ideato da me. Non l'ho sentito da nessun'altra parte.

Qualche sera fa ho fatto questo esercizio così bene che mi sono visto coi suoi occhi, con gli occhi di Eleonora, e mi sono fatto schifo. Non parlo solo di aspetto fisico, dico più in profondità. Dev'essere accecata dall'amore, poverina. Ho pensato a quanto le stia facendo male senza volerlo, a quanto probabilmente anch'io sia cieco e non veda le sue mosse. Amarsi, forse, vuol dire essere dei visionari. Bella cazzata di pensiero. Cancella.

L'altra sera: io e lei sotto le lenzuola a leggere, d'un tratto mi avverte che c'è una zanzara nella stanza. L'ho vista, le dico, è bella grande. Si è posata sull'armadio bianco.

Lei mi dice ammazzala! Io dico che ogni volta tutti gli animali li fa ammazzare a me, mi sto rovinando tutto il karma. Lei ride e dice sul serio, ammazzala.

Sto per alzarmi, neanche il tempo e vola via. La seguiamo con lo sguardo, s'infila in un'ombra, scompare.

Non la vediamo per un po'. Ne parliamo e ci troviamo d'accordo sul fatto che queste zanzare sono più scaltre anno dopo anno. Oppure ci stiamo rincoglionendo noi, valutiamo anche questa ipotesi.

Accendo la luce grande, mi alzo e mi metto a cercare. Alla fine, dopo un bel po', la becco: sta sul muro, di fianco al letto si è andata a mettere, la stronzetta. Non faccio in tempo ad avvicinarmi che capisce e vola via di nuovo, fa di nuovo il giochino d'infilarsi in un'ombra.

Ci darà il tormento tutta la notte, dico. Resterò sveglio ancora un po', prima di dormire la devo ammazzare.

Spengo la luce grande, ci rimettiamo a leggere. In realtà mi tocca rileggere la stessa pagina da capo per tre volte, perché sono rimasto con la mente alla zanzara e poi chissà dove con questo cazzo di pensiero, che s'infila nelle ombre, pure lui; quando ecco che riappare la stronza, come una spavalda plana proprio sul mio comodino. Atterra sul mio quaderno aperto.

Non mi muovo, non ci muoviamo, nessuno dei tre. Sono ancora sdraiato, la schiena sul cuscino e la testa poggiata al muro. Da un lato c'è Ele, che osserva e non fiata, dall'altro la zanzara, sul comodino, sul mio quaderno, rivolta proprio verso di noi che ci guarda, ci fissa, la stronza. È così grossa che la sua intelligenza si sente nell'ambiente come fosse, non so, un mammifero, un maniaco dimmerda.

Io tengo in mano un Adelphi. Non dirò il titolo, ma è un libro che mi sta facendo godere smisuratamente. Ne parlavo l'altro giorno con Eleonora. In genere non parlo di libri, ma qualche giorno fa mi sono messo a raccontarle la trama e ho fatto un gran casino, non sono riuscito a farle capire niente. Almeno tu l'hai capita?, mi ha chiesto. Non lo so, ma non c'è bisogno, ho detto io, perché è scritto in un modo che mi arrivano stilettate di serotonina. Ho detto così: stilettate di serotonina. Ma devo averlo detto con gli occhi spenti, perché lei mi ha fatto notare che a parole avevo detto una cosa bella, ma con la faccia una tragedia. E io mi sono scusato e ho ammesso che sono diventato refrattario alla felicità. Ho detto proprio "refrattario alla felicità", senza pensarci, mi è uscito così. Comunque è un volume molto spesso, settecento pagine, non proprio comodo come arma. Mi giro piano su un fianco, tengo il libro sotto il livello del comodino, la zanzara non deve capire.

Sento gli occhi di Ele dietro di me.

Ho solo una possibilità. Più che altro voglio che sia l'ultimo tentativo. L'ho già sottovalutata due volte, la stronza, se sbaglio sono un coglione.

Compio un movimento velocissimo, il libro passa di lato al comodino, se lo sarà visto sbucare da sinistra, mi è sembrato di vederla decollare. Il gesto è stato così sensato, così rapido e predatorio, che quando mi sono alzato ho scoperto con sorpresa di essere andato a segno.

Non l'avevo schiacciata quello che si dice schiacciata, credo piuttosto di averla colpita mentre decollava e sbattuta giù sul quadernone. Il suo cadavere era intatto, piegato su un fianco sulla pagina a quadretti.

Ele era tutta esaltata, si è complimentata con me, ha detto che era sembrata una scena da documentario.

Lei è proprio come una bambina: ha tutte le emozioni funzionanti. Quando ride, ride bene, si diverte; quando si rattrista è dura da consolare, e se si arrabbia si salvi chi può. E quando ha sonno cade addormentata in un momento. Si è addormentata sul mio petto, e io sono rimasto a accarezzarle la guancia e a guardare il soffitto, a perlustrare il perimetro e a difenderla da altre zanzare.

Sono soddisfatto, la giornata è finita proprio bene. Ma mi viene da ridere, mi sento preso in giro, non da Ele o dalla zanzara, ma dalla potente verità che avevo creduto scorrere dentro di me. La zanzara era stecchita sul mio quadernone, fra i versi della mia stupida poesia che parlava di amore, e io ne godevo.