PARTITUREElena Marrassini

Quattro caffè

PARTITUREElena Marrassini
Quattro caffè

Nina se ne sta affacciata alla finestra del salotto del Villino Liberty di via Fiume e guarda il prato gonfio d’acqua. Piove da settimane. Per lei le notti finiscono alle cinque e mezza del mattino, quando sua madre inizia a fare quei suoni con la bocca che significano portami-il-caffè-caldo-doppio. Doppio nel senso che ne vuole vedere due sul tavolino da letto, due tazzine fumanti. E allora si calma, solo così si calma. Con due caffè da due moka diverse, rigorosamente, ché altrimenti se ne accorge e reagisce male, molto male.

Sua madre è un vegetale. Un vegetale che va avanti a caffè e che capisce solo due cose, una è da quale moka provengono i suoi caffè.

L’ultima volta che l’ha vista lucida, anche se era già ferma a letto, è stato quando sua sorella Simona prese le mani di Nina nelle sue e disse «Nina, mi dispiace, queste son cose che ti tolgono dieci anni di vita» e la madre, mentre beveva lentamente i caffè del mattino guardando le figlie negli occhi, anzi, guardando solo Nina, rispose che a lei dieci anni di vita glieli stava togliendo Simona,  da quando aveva detto a tutti di essere lesbica e se ne era andata da casa. Ma mica  per il fatto che fosse lesbica,  disse;  a lei quello importava nulla. Era per il fatto che se ne andava a vivere in un’altra città con quella sua compagna che sembrava un camionista, mollando lei e Nina lì come due sceme. Che se proprio la sua immensa compagna voleva fare l’uomo poteva farlo lì da loro, che ce ne era bisogno: dal momento che lì dentro nessun uomo resisteva, magari una uoma avrebbe fatto la differenza.

La Simo non era più tornata. A volte Nina pensa che sua sorella avrebbe accettato molto di più la non accettazione della sua omosessualità da parte di sua madre: che almeno sarebbe stata una madre come ce ne sono tante e non una egoista cattiva pezzo di merda dipendente dal caffè. Tutto fra loro è finito quella mattina di qualche anno fa. Anche il cervello di sua madre finì con quella affermazione, e chiuse con la figlia minore e con tutti. Con tutti, fuorché col caffè e con Nina, che glielo prepara due volte al giorno. Due per due quattro: quattro caffè. Da qualche giorno poi, vuole solo quelli, non mangia più. Le ha fatto di no col dito a Nina l’ultima volta che le ha portato la colazione. Ha fatto no col suo dito indice curvato dall’artrosi e ha mormorato una cosa tipo basta-più. E Nina ha obbedito. E Nina non lo ha detto ai medici e non ha intenzione di farlo.

Nina che oggi compie gli anni, sono quarantadue. Nina che poi è Natalina, nata il venticinque dicembre insieme a Gesù Cristo. Nina che campa con la pensione di sua madre, una buona pensione da ex-preside egoista pezzo di merda. Nina che adesso, da due anni esatti, ha lui che le chiede di venir via da quella casa e lei non ce la fa, non finché c’è quella vecchia dentro.

Lo conosce e lo ama da due Natali, dal giorno del suo quarantesimo compleanno, quando decise di chiamare un giardiniere a montare le lucine colorate in giardino che era l’unica cosa colorata che si poteva fare in piena pandemia.

Lo vide dalla finestra del salotto, quella delle cinque e mezza del mattino, quella di fronte alla siepe di alloro, mentre sorseggiava il suo caffè.

Lo vide e sentì scottare l’esofago poi il ventre fino a che il calore premette sul pube e le gambe divennero rigide.

Non seppe mai Nina se fu a causa del primo sorso del primo caffè di quella giornata iniziata con almeno il colore delle lucine, o a causa della vista di quella schiena, di quelle spalle.

L’uomo in giardino le voltava le spalle e osservava la siepe con dedizione, la toccava anche, con quelle mani: due respiri gemelli che sfioravano e spostavano piano, con rispetto, con mestiere.

Nina quel giorno compiva quarant’anni e tormentava la tenda alla finestra del salotto come faceva da bambina, quando c’erano i Natali da guardare riflessi nel giardino.

Quello era un giardiniere professore: aveva gli occhiali da vista sul naso ed era spettinato come lo sono solo i professori che in tv parlano del clima impazzito, con diciassette gradi a Natale. Ma le mani no, quelle non erano mani da insegnante, erano mani forti e abituate al lavoro. Teneva salde le forbici enormi, strisce di acciaio che si muovevano solo se lui lo voleva.

Parve capirlo persino l’alloro e non mosse foglia, si lasciò vestire di luci, si lasciò fare.

Anche Nina si lasciò fare, per tutti i mesi che arrivarono da lì in poi.

Iniziò piano Nina, cercando quelle mani forti anche al di fuori del giardino, per quel poco che usciva di casa. E le ritrovò a messa, la cosa piú vera che le era rimasta e l’unica che la convincesse a uscire di casa. Lui ci andava ogni sera dopo il lavoro: lo aveva visto che si dirigeva sempre lungo il vicolo senza uscita che portava in piazza della chiesa. A lei sarebbe bastato andarci più spesso, non era affatto un problema, le piaceva  tanto andare a messa. Le piaceva troppo. La calmava. Non perché fosse credente ma perché tutte quelle frasi pronunciate all'unisono la  facevano sentire come parte di.

Dipendeva da quelle frasi; la messa era la  sostanza anodina per eccellenza, la sola veramente efficace, con lei.

“È cosa buona e giusta”, “sono rivolti al Signore”, “e con il tuo spirito”: quanta coralità, quanta corrispondenza di lingue, cervelli, aliti. E quando arrivava lo “scambiatevi un segno di pace”, l’epitome: lì Nina si sentiva davvero, anche se per uno spicchio di secondi, al suo posto nel mondo: mani che si uniscono, bocche che sorridono lievi, occhi che alzano sguardi. Si impose, per non rischiare l'assuefazione, di andare solo alle messe vespertine dei giorni dispari, il lunedì, mercoledì e venerdì.

Si sedeva sempre nella terz’ultima panca. Teneva sempre le mani in grembo sulle cosce strette e non appoggiava mai completamente i piedi, non li affondava mai del tutto nell’imbottitura beige dell’inginocchiatoio della panca davanti. Sua madre non avrebbe voluto, come non lo voleva quando lei era bambina. Uno sforzo non da poco, ma non riusciva a non farlo. Lui invece sedeva morbido, come da sempre siedono i maschi, a gambe leggermente divaricate, i piedi sul pavimento, paralleli fra loro.

Se non fosse stato per lui, non avrebbero superato il totale isolamento, nè lei nè sua madre, e sarebbe finita in tragedia, quelle che si leggono sui giornali.

Lui divenne lo scopo per alzarsi al mattino. Il pensiero di lui impedì a Nina di soffocare la madre versandole a forza in bocca tutti e quattro i suoi caffè uno dietro l’altro a ingozzarla come un’oca da foie gras. Il pensiero di lui e quello di far tardi alla messa della sera. Scappò nell’unico posto dove respirava la pace, lasciando la vecchia lì che urlava spezzata, con il mento e il collo ustionati.

Lo vide appena entrata. Si scambiarono, con un mezzo inchino e con gli occhi al di sopra delle mascherine, quel pezzo di pace a poco meno di un terzo dalla fine. E Nina sentì che da allora  sarebbe stato tutto in discesa.

 

E anche adesso, dai, che vuoi che sia Nina, basta arrivare alla fine di questo Natale. Non ci sarà bisogno di fare nulla, solo qualche altro caffè e mettersi alla finestra ad aspettare.

In fondo, lei ne vuole solo quattro al giorno. Che poi diventeranno tre, poi due, uno, zero.