PARTITURELuca Togni

Uno dei giorni

PARTITURELuca Togni
Uno dei giorni

Cammina spedita, il marciapiede le sembra una piccola strada affollata senza alcuna mezzeria.

Non riesce a scansare il fiume di studenti che le scende contro, appaiati a raddoppiarne la forza, a gruppetti come grumi portati dalla corrente. Ragazzini: piccoli grandi rompiballe mobili.

Sul bagnato di una recente pioggia la tormentano riflessi di luce, sicché non alza lo sguardo nemmeno per contemplare il cielo; desidera solo arrivare in ufficio dove guadagnerà le giuste distanze.

Fa freddo, il vento le soffia di lato.

Erano altri i tempi in cui si faceva stretta al suo tipo e le pareva di agognarne il contatto. Poi lui è colato a fondo, disperso, annullato, non c'è più stato; quello nuovo, che dire, non la convince, in realtà non sa più nemmeno che desiderio volere.

 

Passato il badge è un altro mondo, paludi lente senza l'ira di un fiume di corpi, ma con altri scazzi dietro le persiane dagli alettoni elettrici che manovra lei, e regola persino il sole.

Va quasi tutto bene: dentro una giornata sempre uguale anche gli imprevisti sono ventagli di cui conosce le pieghe; e non sarebbe altro che lavoro, se ci pensa, solo che ci tiene parecchio, come a una faccenda di principio, un benedetto cacchio di spazio giusto dentro una vita. E allora finisce che è quasi sempre un po' in tensione.

 

Quando le scappa da pisciare invece non è sempre grave, ci penserà a breve, deve solo terminare l'incombenza di turno. 

Considera la faccenda ancora una gran rottura, non ha tempo da perdere. È come quando quei cacchio di alettoni si incastrano, l'ultima nuvola è lontana chilometri e nulla deflette quell'ostia di sole.

Inoltre, i bagni sono sempre conciati dei cessi, pure quelli delle donne, non capisce come, e si è rotta di fare gli equilibrismi per riuscire a farla. Quanto le piacerebbe una clitoride mini-cazzo da farsi venir dura per pisciare da uomo. Non capisce Dio, certe volte, non lo comprende affatto. 

Intanto se la sbriga a casa, prima di uscire, e poi resiste, e ci torna in pausa pranzo, quando può. 

Quando diventa allarme, perché magari non ha potuto rientrare, e nemmeno piantar lì il casino di cose di cui si vuol sempre occupare, le perdite sono già in agguato.

 

Oggi è uno di quei giorni, e quei giorni che non s'ascolta le fanno schifo, le fa schifo l'intimo umido dentro un sacchetto, in borsa; le fa schifo un assorbente pure per la piscia, che già non regge l'impotente mestruo; odia l'incastro in cui si trova ingabbiata, la natura che prende il controllo. 

Oggi, al piano, i bagni sono tutti occupati. Scende di corsa lungo le scale. Trovato libero al livello inferiore si infila nel cesso dei capi, ma la vescica cede come sfiancata, e lei con essa. È un pianto dagli occhi e nelle mutande.

 

Si spoglia. Resta lì, minimo due ore. Sbircia dalla finestra. Le piacerebbe essere fuori nelle strade che si sono fatte deserte. Respirare. Essere padrona di un minimo brandello di vita.

 

Sciacqua i suoi jeans, vorrebbe essere a casa a stenderli fuori, invece gli tocca farli asciugare coi colpi di un asciugamano ad aria che sta tirando gli ultimi. Prega che non ceda. Prega e impreca, ha da fare, merda di vita di merda, l'ultimo colpo a quel maledetto tasto gigante glielo dà che lo disfa.

Si siede sulla tavoletta tenendosi la faccia. 

Chiude gli occhi. 

Si figura chiaramente di lì a un anno, con la barba, senza più tette, senza più sangue, con un cazzo in mano. 

 

Poche sere dopo non si vedono stelle sopra Città Alta, e allora a che serve quella gran vista sul mondo, se lei non si sente bene.

Sono alcuni giorni che le capita, e non capisce, alcuni giorni che le tocca soffrire anche a casa senza sapere per cosa, diversi giorni che è incinta e che non sa più cosa fare, perché lei non vuole, e di permessi nessuno ne ha chiesti, nessun preavviso, che so, un rizzarsi del seno, uno sguardo diverso verso quel banco di barracuda che incontra ogni mattina sul marciapiede. 

E poi non ci può credere, ora che ha quasi cinquant’anni e che le hanno sempre detto che lei è sterile, improduttiva, secca come una vecchia fonte; acida, acida come contro la corrente. 

Lui invece sì. Lui vuole. Ma a lei di lui non frega un cazzo, ma del lavoro eccome. Quello stronzone del capo lo vuole, quel figlio, perché tutto si possa dire ma non che non è cristiano. La pianta a casa, le ha detto, lui la pianta a casa, manco l'italiano conosce.

E il coglione è sicuro che lo fa, certo come la fede in un simbolo che si porta appeso alla catenella. 

 

Se lo è detto pochi giorni prima e non ha cambiato idea, non le vuole più le menate femminili, vuole essere un uomo. È sempre stato così, non se lo è mai detto. Quella è stata l'ultima scopata da fessa e vaffanculo anche il lavoro; lui che se l'è fatta e fingeva di fare l'amore, e i cessi luridi che non le vien più di pisciare, e il cervello laureato ma chissà a quanti l'avrà data, ogni volta parole contro, come pietre, perché è nata con la passera. 

 

Tornerà da suo padre che accetterà le sue scelte, le membra irsute, il cambio di voce, nessun figlio, una lenta muta.

 

Se non andrà così farà il barbone, che da uomo è più comoda anche l'igiene personale, che un figlio è uno dei tanti modi per non trovare lavoro, chi lo vuole tirar su un figlio quando è incazzato da morire, a cinquant'anni, senza un padre che conosca l'amore, con una madre che è una donna solo per un errore. 

Tornerà, lascerà la città che se ne frega di tutto, il vecchio corpo nello scantinato buio da cui è venuto, con quella sua caverna che è stata sempre un freddo vacuo, e le ha attirato solo il peggio.

 

Scende in strada, cammina e si sente come la corrente, va nella sua direzione, su uno dei suoi dorsi fa riflettere il sole; dove non c'è il suo tondo oro si stende il sereno, un alito di Föhn la sospinge come un abbraccio caldo.